Lettere intorno ad alcuni Codici della libreria del marchese Luigi Tempi

Lettera seconda

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Breve trattato della Repubblica Fiorentina


 

Certo avrei voluto, scrivendovi l'altra volta, potere indovinar l'autore di quella filippica; ma non mi riuscì. Pensai un tratto all'Alamanni, in grazia de' due versi famosi, che Carlo V, vedendoselo comparir dinanzi ambasciadore a Madrid, mostrò di rammentar troppo bene; ed anche per aver letto che il De Rossi, quando fu a Parigi, si strinse con lui di particolare amicizia. Poi, avvertendo che il poeta morì due anni circa prima dell'imperadore, mi volsi agli altri usciti, che alla morte del secondo potevano ancora esser vivi, e aver qualche dritto all'epiteto che il De Rossi dà all'amico non nominato. Ma come noverarli tutti o fermarmi in alcuno, se essi, come sapete, eran tanti; poichè nè le commozioni civili impedirono mai in Firenze gli studi delle lettere, nè vi fu quasi cultor distinto delle lettere, che non meritasse d'andarne in bando colla scacciata libertà?

Per questa medesima ragione m'è quasi impossibile congetturar l'autore d'un breve trattato della Repubblica Fiorentina, vari frammenti del quale (trascritti, sembra, dalla mano stessa che copiò quelli del Varchi) occupano un sesto, circa, del codice, di cui ho preso a rendervi conto. Al primo accorgersi di questo trattato, che nel codice non ha titolo, e il cui autore s'intende tosto esser fuoruscito e letteratissimo, il pensiero corre al Giannotti, che fece e poi trasmutò affatto (come sappiamo dall'ultima delle poche sue lettere stampate) quella sua opera immortale venuta in luce da poco più d'un secolo. Chi sa mai, si dice, che il trattato imperfetto del codice non sia l'abbozzo di tal opera, e a compenso di que' pregi, che sono il frutto della meditazione, non abbia in sè quel maggior calore, che dà il primo impeto della composizione?

Infatti sin dall'esordio sentiamo che il calore deve abbondarvi, come forse non abbonda che in alcuni de' più bei passi dell'opera accennata. Ma oltre il calore avvi nelle parole di quest'esordio non so che di passionato e di mesto, di cui il Giannotti, ch'io sappia, non offre verun esempio. Nè forse l'uomo stesso, ch'ormai settuagenario, scrivendo al Varchi da Venezia, città al dir suo felicissima, si vantava scherzando d'esser "di que' ribaldi di Montemurlo" e accertava di passar la vita "con grandissima quiete e dolcezza" che per molesti pensieri non volea turbare, avrebbe cominciato fra il tuono dell'elegia e del1'invettiva, lodando chi a fuggire la comun corruttela, non che dal governo delle repubbliche, ormai tutte invase dalle tirannidi, si astenesse "dal conversar con gli altri nelle città per qualsivoglia affare" e si riducesse "in luoghi remoti o ne' volontari esilii delle ville, dove, vivendosi poveramente e del suo, potesse attendere o ai santi studi della filosofia, o a coltivar l'antica madre senz'invidia d'altrui e da essa prender la vita, o ad esercitarsi in molti onesti piaceri, come già ferono l’antiche genti, che più di noi vissero secondo la natura, ec. nè quindi "eran forzate, per mantenere i lor gradi, a rapire il pubblico, ad assassinare il privato, ad adulare i mostri e a reggerli con ogni sorte di vitupero e d'infamia".

Fu comune a tutti gli usciti più illustri (voi che avete lette tante loro scritture lo sapete) la ferma speranza d' un cangiamento propizio alla libertà. Nel Giannutti questa speranza fu poco meno che viva fede, ond'egli conchiudendo il primo capitolo del primo libro della sua maggior opera: "tre cose, dice, mi hanno indotto a scrivere della Repubblica Fiorentina, cioè il voler dilettare me medesimo, il veder la rovina della presente tirannide propinqua, e la necessità di correggere i mancamenti de' due passati governi". L'autore del trattato manoscritto nè vede propriamente ciò che vede il Giannotti, nè par che senta l'istessa necessità di correggere ciò che a' suoi occhi stessi ha pur uopo di miglioramento. "Trovandomi io con altri assai cinto d’infinite miserie, nondimeno del viver libero desideroso, non possendo altramente dimostrar il mio animo, nè esser in altro grato alla patria mia, cerco con quel poco ingegno, che mi ha la natura concesso, e con quel poco giudicio che 1'esperienza mi ha fatto, mostrare qualmente la città nostra ha sempre potuto e poteva e può ancora viver libera, quando i cieli ne le porgessino l'occasione, e ancora come il governo datole nel 1494 dal divino Jeronimo Savonarola le fu ottimo e proporzionato. Dove io ultimamente aggiugnerò alcune cose per farlo migliore, essendo, come si dice in proverbio, agevolissima impresa sopra le cose trovate metter qualcosa di più, e non possendo un solo nè tutto dire nè tutto fare compitamente".

II Savonarola era sicuramente pel Giannotti qualche cosa di più venerabile che pel Machiavello o pel Guicciardini. Non però egli era per lui il divino Jeronimo, il trovatore del più perfetto de' governi che Firenze avesse avuti, ma il semplice predicatore di quello qualunque siasi che dal 494 durò sino al 1512, e poi rinnovato con alcune modificazioni nel 27 durò sino al 30. La base almeno di tal governo, il gran consiglio, ei la dice introdotta (cap. 5 del primo libro) da Paolantonio Soderini, il quale, stato pocanzi ambasciatore a Venezia, di là ne prese l'esempio. Ben confessa che, per introdurla, il Savonarola gli fu di grande anzi di necessario aiuto, poichè tutti coloro, "che hanno voluto cose nuove introdurre, sono stati costretti ad interporvi la volontà divina non bastando la propria".

L'autore del trattato manoscritto, in quel capitolo, che numerato viene ad essere il decimo, nega assolutamente che il governo dato o favorito colle predicazioni dal divino Jeronimo abbia alcuna somiglianza col veneto. "Migliore è quella repubblica (ei chiama di tal nome il solo governo misto) che ha maggior rispetto a quell'umore che in una città predomina. Ma perchè nella città nostra questo è il popolare, perciò il governo datole nel 1494 fa ottimo, per aver egli inclinato il suo favore più al popolo che a' pochi. Di ciò ne può esser indizio il governo mesto nel popolo (col gran consiglio), il non esser proibito il poter fare nuovi cittadini, l' esservi dati molti magistrati alla sorte, i quali ordini tutti hanno del popolare. Nè già fu in ciò imitato la veneziana repubblica, che tira più con li suoi ordini alli ottimati, avendo serrato il numero de' suoi gentiluomini, ed eleggendo i suoi magistrati co' più favori per la più parte, le quali usanze non sarieno state buone a Firenze, ec. ec. ".

Quanto al consiglio grande ben si vede che il nostro autore non pensò punto a quel ch'era in Venezia originariamente. Ch'ivi pure ebbe molto del popolare, come Trifon Gabriello dice al Borgherini nel dialogo del Giannotti intorno alla Repubblica de' Veneziani, onde non dubita che servisse di modello al gran consiglio fiorentino, come poi il doge al gonfaloniere perpetuo. "E Dio volesse per beneficio della vostra patria e per 1' onore d'Italia, egli aggiunge, che voi aveste saputo imitare gli ordini della nostra repubblica, che non sono così, com'è il consiglio e la perpetuità del doge, a ciascuno chiari ed apparenti . Perciocchè la città vostra si sarebbe libera mantenuta; nè avrebbe sentito quelle alterazioni, che l'hanno ad estrema ruina condotta". Per introdurre in qualche modo tali ordini, ammirati generalmente da tutti i politici, ma più specialmente da questi fuorusciti . par che il Giannotti scrivesse la sua Repubblica Fiorentina, a cui potrebbero darsi per epigrafe le parole qui citate. Le quali, per quanto discordino da quelle del trattato manoscritto citate più sopra, non debbono però farvi supporre fra il trattato medesimo e l'opera omonima del Giannotti una grandissima discordanza. Vedrete (poichè le due opere valgon la pena d’un confronto) che la discordanza non solo non e nel fine che i loro autori si propongono, ma è sì poco ne' mezzi da loro additati per conseguirlo, che appena si può dir sostanziale. Così l'esterior dissomiglianza, più che nell'andamento delle due opere o in altro, è nella forma dello stile. Chè questo nell' opera del Giannotti è più regolato e più scelto; in quella dell'anonimo è per così dire abbandonato. Non però è senza proprietà e senza vaghezza (il vecchio stile fiorentino quando mai ne fu privo?) e può farvi parer brevi le più lunghe citazioni.

Benchè il trattato manoscritto non sia formalmente diviso in libri; guardando però alla divisione delle materie, può dirsi che ne contenga altrettanti che la Repubblica Fiorentina del Giannotti. Il primo e il secondo , come quelli dell'opera or nominata, sono particolarmente storici; gli altri, come nell'opera detta, sono propriamente legislativi. Il Giannotti, molto inclinato alle speculazioni generali, parla prima , se vi rammentate, dell'ottima specie di repubblica, poi di ciò che si richiede ad una città perchè ne sia capace, e a meglio provare che Firenze n'è capacissima reca in mezzo la sua storia da' tempi romani al 1527. L' autore del trattato manoscritto comincia addirittura da questa storia, nou prendendola peraltro che in tempi assai vicini, quelli cioè di Cosimo il vecchio, e seguitandola fino a quelli in cui scrive, per poi dedurne che Firenze può viver libera. Il Giannotti, come sapete, nella rapidità del suo corso non tocca i fatti che alle loro sommità, lanciandovi per entro riflessioni feconde e piene di luce. L' altro scrittore, che si è dato più agio restringendosi lo spazio, scende a maggiori particolarità, ed interessa specialmente pel sentimento con cui vi si ferma. Del resto ambidue concordano in certi giudizi , come quello che la tirannide del vecchio Cosimo fu profittevolissima alla libertà (giudizio che vi noto perchè il Giannotti ce lo dà come suo particolare) e servono egualmente di testimonianza a molte opinioni e inclinazioni della loro età. Raffrontate, se vi piace, questi brani del secondo capitolo del trattato dell'anonimo con quella parte che lor corrisponde nel quinto capitolo del primo libro del Giannotti.

"Però , ripigliando da alto, è da sapere che nel 1434 Cosimo de' Medici si fé capo della città col favor popolare, che si volse a farlo grande per isbattere una potenza di pochi, che rettisi da 50 anni sotto un governo da prima assai laudabilmente composto, a poco a poco diventarono cattivi, come fan tutte l'umane cose, avvenga che buone sieno, ma quelle principalmente che hanno cattivo principio. Laonde a Cosimo, senza molta fatica, balzò in mano quello stato, il qual esso poi ritenne , con una parte de' cittadini rilevati da lui, per la più parte della sua vita, a loro permettendo assai, al resto togliendo l'arme e lasciando poco degli altri beni che si stimino, e molti altri spogliando della lor patria, e, se pur alcuno ne restò, mettendogli addosso il crudel supplizio delle gravezze, che li condusse a poco a poco in estrema rovina. Questo modo di vivere durò in lui, in Piero suo figliuolo, e successivamente in Lorenzo e Piero dopo lui insino al 1494. E veramente può affermarsi, in fra le tirannidi state questa aver avuto lunghissima vita, il che non nacque d'altro che dall'essere stata molto civile ed in un certo modo che non se n'accorgevano i goffi, poichè vissero (i Medici) il più del tempo senza guardia del corpo, con li abiti civili e con li costumi simili alli altri cittadini, ed ancora perchè essi erano fatti dal popolo e dalla gente bassa, a cui ebbero sempre rispetto, e li grandi rovinaron di sorte, che in pochi era rimasto virtù o animo da sapere o da potersi torre il giogo della servitù. Ma venuta, quando al ciel piacque, la morte di Lorenzo de' Medici, e successo Piero nello stato, che per tener modi al padre disformi in tutti i costumi, e massime per aver con li suoi più congiunti fatta nimicizia (chè una ceffata dett'egli a Lorenzo di Pierfrancesco) nacque, dico, per tutti questi conti che gran parte di quella nobiltà, che prima li aveva favoriti (i Medici), se gli rivolse, onde nella venuta di Carlo di Francia Pier Capponi e gran parte di essa nobiltà lo cavarono di stato, e quasi tutti furono uniti a far un governo libero, ma discreparono ne' modi, volendo alcuni d'essi più al largo, ed alcuni più allo stretto rivolgerlo. E certo che allora sarieno stati poco concordi, se Dio non avesse lor preparato un aiuto divino e di luogo non aspettato da un fraticello Jeronimo Savonarola, uomo di santissima vita, di rara eloquenza e di quella virtù che sa tutto il mondo. Costui dette le leggi della repubblica, e creò il consiglio generale, cioè messe nel popolo la signoria, il che se fusse ben fatto o no più di sotto disputerassi, e qui basti aver detto che per suo mezzo la città prese un modo di vivere non mai sutovi pari in bontà da ch'e' fu edificata Firenze ec.

"Surgono or qui li calunniatori della libertà con dire, essere stato meglio per la città viver sotto il governo de' Medici, e di ciò allegando due ragioni, perchè, essendo ella stata retta da loro 60 anni, s'era per questa lunga servitù perduto ogni virtù da poter vivere liberamente, ed ancora per essere tal governo migliore in lei della licenzia populare, ec. Quanto al primo capo rispondo che, sebben Firenze era stata 60 anni tiranneggiata, non perciò aveva perduto ogni virtù nè ogni forma di libertà; anzi legghinsi li storici e vedrassi in quei tempi lei sempre aver mantenuto gl'ordini liberi della signoria, dei consigli, delle imborsazioni de' magistrati, i quali, avvenga che fossero all'arbitrio di Cosimo e di pochi potenti, non però è ch'e' non apparisse in quel vivere qualche po' d'ombra di libertà e di viver civile. Ancora si sa la città ne' tempi di detto Cosimo esser vissuta qualche tempo liberamente e senza dar la balìa a Cosimo ed a pochi cittadini (il che fu nel 1456, quando li timori delli fuorusciti furon mancati ) ed esservi durata tal libertà per due anni in fin che Luca Pitti di nuovo ridette la signoria a Cosimo e ritolsela al popolo. Vedesi ancora in tutti i tempi di detto Cosimo, e quando egli ebbe e quando ei non ebbe la balìa , essere stato sempre in Firenze qualche cittadino di lui poco manco potente; in fra i quali Neri di Gino, cittadino egregio, sempre mentre ch'e' visse mantenne qualche ombra di libertà nella patria. Più oltre, a Piero di Cosimo non fue congiurato contra dai primi cittadini di quello stato? E che altro ciò importa se non in Firenze essere stato sempre mai dei cittadini desiderosi di viver liberamente, e che stimavano che si potesse usar la libertà nel governo? ed il medesimo si può conchiudere per la congiura de' Pazzi fatta contro a Lorenzo e Giuliano.

"E venendo alla seconda ragione, cioè che 'l governo dei Medici fosse sempre migliore in Firenze degli altri suoi stati popolari, che dicono averla rovinata d'uomini, di consiglio, d'onore , a tali che ciò allegassino si potria veramente rispondere, ch'eglino avessino corrotto il primo principio a voler, dico, preferire la tirannide alla libertà. La quale avvenga che non libertà ma licenzia fosse da dirsi, non per ciò fia che tal licenzia populare non sia men cattiva e di sua natura migliore ch'ogni onesta tirannide. E ciò non si provi con altri esempi che con li propri, e raccontinsi li stati della città nostra, che quasi tutti sono stati popolari in fuor che 'l racconto e quel del duca d'Atene dopo l'abbassamento delle case di famiglia, e vedrassi in questi così popolari stati esser germinati tutti i semi della vertù e potenza della città. Chè, per non raccontare gl'ordini civili constituiti per pareggiar i cittadini e farli viver contenti del giusto, dove fiorì mai la vertù militare se non in così fatti governi? dove fu acquistato il dominio di quasi tutte le terre circonvicine se non in questi modi di vivere? da chi altri fu fatta la città degna d' esser annoverata in fra le celebrate repubbliche? Mettasi dall'altra banda il governo della casa de' Medici, e vedravvisi innanzi tratto toltovi l'armi, che sono il nervo della repubblica, sbanditivi li cittadini nobili e vertudiosi, e rinvestitovi delle loro spoglie gl'ignoranti e vili adulatori; vedravvisi tolto ogni onore alla patria ed in una sola casa ridotto non pur 1'onore e la gloria, ma le ricchezze ed ogni saltro suo bene, del cui latrocinio non puote al mondo escogitarsi il peggiore. E queste son brevemente le vertù di quello stato, per non raccontare le cattive usanze, li disonesti costumi messi in fra i cittadini, onde negli altri viveri si sariano astenuti, se non per amor del bene, almeno per timor della pena e. della vergogna.

"Ma dichinmi per loro fe' li tanto affezionati a quello stato, e che tanto innalzano al cielo sopra di tutti gli altri quel non mai secondo loro abbastanza lodato Lorenzo de' Medici, di cui non pur l'azioni ma li segreti concetti vanno ammirando; dichinmi di grazia se, quando e' lo celebrano, intendono di celebrarlo per uomo vertuoso? Ma come potria ciò essere, essendo gl'uomini vertuosi amatori della libertà della patria, della giustizia, della religione? Se per buon cittadino? Ma questo è impossibile, essendo diffiniti li buoni cittadini con la scambievole podestà del potere or comandare ed or ubbidire, e ciò per fine di ben vivere. Se per buon principe? Ma non son quei buoni principi, che non pur fanno osservare, ma che ancor essi osservano le leggi, e che sono del pubblico bene amatori? Se per buon tiranno? Oh se per buono ma tiranno, questo confesso io con loro, e medesimamente confesso quel governo essere stato buono ma tirannico. Nè convengo già con loro in lodarlo più del popolare, conciosiachè li stati populari, li cattivi dico, sien migliori o per dir me' manco rei d'ogni stato tirannico e della miglior sorte, se non per altra ragione, per questa sola, che nello stato populare cattivissimo è manco unita la forza al far male, ed è di manco vita che non nello stato d'un solo che sia cattivo principe. E per un'altra ragione ancora son meno rei tali stati di popolo, perchè in essi il maggior danno che vi si aspetti è il pericolo e la propinquità della futura tirannide. Però si può egli molto bene conchiudere li Fiorentini aver fatto bene nel 1494 a liberarsi di servitù, ed essere stati atti a viver liberamente.

"Questo medesimo, che io ho detto , si potria confermare con una ragione della sopportata tirannide, e dire, se fusse lecito dir bene del male, lei aver potuto causare in Firenze miglior libertà che mai fusse statavi. E certo niente importi qui il dirlo, cioè ch'ella accidentalmente di tanto bene sia stata cagione al pubblico corpo, non altramente che nei privati si vede intervenire, in quei , dico, che sono per lor natura mal sani, dove l'infermità grandi e diuturne vi partoriscono sanità e nettanli di tutti i cattivi umori. Che il simile accadde nella città nostra , ch'è una di quelle ch'ebbero cattivo principio, per essere stata gran tempo suddita dell'imperio, e poi governata dalle case di famiglia, che erano baroni ed uomini grandi e disuguali al politico vivere, i quali sbattuti dal popolo, e ridottasi l'autorità nei Guelfi, non perciò finirono con i loro esili le contese civili. Perchè subito in fra i medesimi Guelfi, per conto di maggiore o di minor grandezza, surse acerba divisione per le parti Nere e Bianche, e da poi fra il grasso popolo e 'l magro per l'acerbità della legge dell'ammonire, e causarono tai semi di discordie, che sempre quel bene, che si faceva nella repubblica, fusse inteso non per pubblica ma per privata utilità. dalla parte che più poteva nello stato. Di qui nacquero li spessi esilii de' gran cittadini; la concessione della signoria ai reali di Napoli; la potenza del bargello d'Agobbio; la tirannide del duca d'Atene e ultimamente lo stato infame dei Ciompi. I quai mali tutti della nostra città dico io non essersi mai spenti sì interamente quanto nell'autorità della casa de' Medici, la quale per essere stata di lunga vita, e per aver favorito da prima il popolo, venne di necessità a spegner molte grandezze, che non lasciavan vivere Firenze libera, riducendo in 60 anni quella cittadinanza a una conguaglianza maravigliosa, onde chiaro si poteva dire altro impedimento non restarvi alla libertà, che la grandezza di quella casa; la qual essendo stata tolta via dall'occasione di que' tempi, Firenze non aver mai avuto più bel principio da viver libera che quella età".

Il capitolo seguente non ha riscontri in quello sovra indicato del primo libro del Giannotti, ma bensì in vari del secondo, ov'egli, considerando i difetti de' due governi del 494 e del 527, or estende le cose già toccate della storia patria, or continua la storia medesima. Ed ivi pure lo troverete molto concorde col nostro autore, da cui si distingue piuttosto per la profondità che per la diversità delle vedute. Così, per recarne un esempio, ove l'autore s'accontenta d'attribuire la caduta di Pier Soderini, di cui la repubblica ebbe tanto a soffrire, all'invidia e alla malignità; il Giannotti cerca la causa che le rese vittoriose, e gli par di scorgerla principalmente nell'eccesso d'un potere, che anche in uomo tutto rivolto al pubblico bene era divenuto odioso. La qual veduta è consentanea all'altre sue intorno a' limiti necessari ad ogni autorità, delle quali è pieno il libro già detto . Ma di esse avrò occasione di far parola più sotto; e intanto non voglio ritardarvi il capitolo, che vi ho annunciato.

"Seguendo l'ordine proposto vegnamo a discorrere la riavuta libertà del 1527, e in prima diciamo come Firenze dopo il 1494 resse lo stato con libertà tale, che ciascuno, avvenga che di lei nimicassimo, confessa la città nostra non esser mai stata nè lì onorata nè sì ricca nè sì vertuosamente composta, e massime dal 1502 al 1512, che fu tutto il tempo di Pier Soderini, il qual fu insieme con la libertà della patria cacciato e per invidia d'alcuni e per malignità di certi che volsono ridurre la patria in servitù. Intervenne in questa infermità civile il medesimo danno che nell'infermità d'un solo uomo, la quale molto più affligge il corpo nella ricaduta che nella sua prima giunta. Che alla città intervenne il medesimo, perchè dove nella prima signorìa de' Medici non vi era il maggior male che a voler ad ogni modo tener lo stato e nel resto parer cittadino; in questa seconda vi stette ferma la prima intenzione, e di più fu accompagnata da tutte le grandezze de' principi in ogni maniera di vivere, di vestire, di guardie del corpo ed in ogni altra disuguaglianza dagli altri. Le quali imprese furono dalla fortuna favorite talmente, ch' e' pare che le felicità scendessino a gara a far Giovanni (cardinale) papa Leone, ed il fratello e 'l nipote duchi , e li parentadi reali, e, se nulla mancava, quasi a perpetuar il papato in Clemente, di sorte che la povera terra di tai grandezze particolari scese in tanta bassezza, che chi non avesse provato di poi quanto ella poteva più miseramente condursi, non aria già creduto ch'ella fusse potuta star peggio. Ma essendo , quando il ciel volle, venuta, dopo l'intera destruzione virile della stirpe legittima dei Medici che si spense in Leone, la presa di Roma e di papa Clemente dalle genti tedesche; li cittadini fiorentini, in cui non era ancor spenta ogni generosità d' animo, ripreson vigore; e furono in fra' primi Niccolò Capponi e poi Filippo Strozzi e molti altri della parte de' Medici, che li cacciarono un'altra volta, e ridussero in libertà la lor patria.

"Surgono ancor qui le calunnie contro gli autori di tal libertà, date loro per due conti. Il primo per non essere stato, come dicevano, partito da savio il rimettere la libertà in un popolo corrotto: e provano la corruzione in questo, per esser, dico, li Medici stati 15 anni in istato come principi assoluti, nel qual tempo avevan messo in Firenze tutte l'usanze e costumi disformi al viver libero, e per aver di più Leone e Clemente comperatosi con doni e con benefici molti cittadini nobili. Nel secondo luogo allegano, ch'essendo vivo Clemente non era bene torgli lo stato e metter la città in un maggior pericolo di aver per forza a ritornare sotto 'l suo impero. Al primo si può rispondere in certo modo confessando e in certo modo negando la corruzione, confessandola, dico, ne' particolari e non concedendola in tutti. E che l'universale non fusse guasto si prova con l'esempio dei tumulti fatti popularmente e senza capo, un mese avanti che i Medici fussero cacciati, solamente col nome di libertà; lo che non mostrò altro che un grandisssimo desiderio di lei, che non è nei popoli che son corrotti. Più oltre la corruzione, che fa i popoli inetti al viver libero, non si piglia tanto dalla disonestà dei costumi quanto dal non aver memoria di libertà nè segno alcuno nè ordine da poterla ricomperare. Saria per mia fe' cosa assurda a dire che la memoria di lei fusse stata spenta in Firenze, conciossiachè quindic'anni avanti l'avessino avuta , e ch'ella vi fusse durata diciotto con tanta vertù e con tanta potenza che non mai più vi fu tale, e dove erano ancor vivi tutti o la maggior parte quelli che vi si eran trovati a goderla . Ed in quanto a' segni ed alii ordini, v'era il palazzo e la signoria, i parlamenti, i tumulti fatti con quell'arme che in quel tempo si potevano avere, il nome di libertà, le quai cose tutte furono usate. Ancora li cittadini grandi, ch'erano stati beneficati dai papi, se essi avevano alcuna virtù, non dovevano tai benefici anteporre alla salute e al pubblico onore, sì come in quel tempo fecero , che come si vedde sdimenticarono tutti li privati comodi pe' comodi pubblici?

"Quanto alla considerazione della vita di Clemente, par certo che tal punto più dall'evento che da essa cosa meriti approvazione. Perchè nel tempo, ch'ei si mutò lo stato di Firenze, Roma era saccheggiata, il papa era prigione in Castello d'un esercito barbaro , grosso e senza capo (chè perduto l'avea nel primo assalto dato alle mura) ed in oltre di quel seggio e di chi lo teneva nimicissimo per conto della setta luterana in tutti regnante, talmentechè più di lui (Clemente) era da stimarsi la morte che la salute. La quale, avvenga che non gl'avessero data i soldati inimici, non era egli da imaginarsi con ragione che 'l dispiacere di Roma saccheggiata, il disagio sopportato, e se noi vogliamo aggiugnervi il mutamento dello stato fiorentino non avessero a causargliene? Ma posto la sua morte e la sua vita da canto, che avevano in cotal caso a fare li cittadini prudenti e della lor patria amatori? Avevano a mantener quello stato per farsi ostilmente accostar quell'esercito barbaro, acciocchè insieme col papa si perdesse anco l'onore e la vita della città? O avevasi ad accordar con loro? Ma come si poteva ciò fare volendo tener fermo lo stato pe' Medici, se già non si fusse ricompensato le bilance con una inestimabile quantità d'oro? Anzi non fu miglior partito in un medesimo tempo e dalla nimicizìa del vittorioso esercito e dalla servitù liberarsi? E sebbene tal liberazione dappoi successe infelice, sappiam di ciò grado alla rabbia di pochi cittadini popolari ed alla malizia della parte pallesca. E basti fin qui aver provato questi cittadini allora aver fatto virtuosamente e con buon consiglio quelle azioni che indussero in libertà la lor patria".

Dopo questo capitolo, ch!è il terzo, ne succedeva nell'originale un altro, di cui nella copia non son riferite che queste prime parole: "Ma vegnamo al 1536, quando la città meravigliosamente fu liberata dalla crudele ed inaudita tirannide d'Alessandro, e discorriamo ec. ". E qui seguivano altre otto carte, in luogo delle quali l'autore pose una nota, in cui dice che le stracciò perchè, avendole scritte nel principio del nuovo principato di Cosimo, non volle si vedessero. E veramente il partito preso gli spiace assai, poichè in esse sbatteva tutte le ragioni di coloro che ridussero di nuovo la patria in servitù ec. "Pure, ei conchiude, ogni cosa sia per lo meglio e di tutto Iddio ringraziato". Questa nota ci da l'epoca in cui il trattato inedito fu scritto (il 37 o il 38), l'epoca stessa in cui fu terminata, come sappiamo, la Repubblica Fiorentina del Giannotti. E parrebbe dal fatto, che diede motivo alla nota, che l' autore fosse piuttosto confinato che fuoruscito, se non si pensasse che anche i fuorusciti doveano pur sempre sentirsi sotto la mano di Cosimo, a cui in nessun luogo mancavano strumenti di vendetta.

La perdita del capitolo indicato è per noi tanto più grave, che ci ha forse cagionata anche quella del quinto, di cui nel codice non si legge che la conchiusione. Pare che in questo capitolo l'autore, seguitando la storia, venisse a mostrare che tutte le disuguaglianze, dalle quali poteva temersi ostacolo al viver libero, in Firenze erano ormai tolte "essendo pur pochi mesi avanti seguito il raro e miserabile esempio di Montemurlo, che ha parte spento a parte sbattuto le maggiori grandezze della città nostra, ec.". E sebbene, ei prosegue, "ci resta de' cardinali fiorentini (Ridolfi e Salviati) dico tal grandezza non essere nociva alla città quanto quella, e per aver i cardinali modo di sfogar fuori la loro ambizione (ciò non avrebbe forse detto il Giannotti, che intitola al Ridolfi la sua opera col magnifico proemio che sapete) ed oltre di questo per esser di buona qualità e scoperti in favore della libertà quanto nessun altro buon cittadino". Ma lasciando questo ragionamento , ei dice da ultimo, "passiamo con un altro principio a dimostrar il governo dato a Firenze nel 1494 del divino Jeronimo Savonarola esserle stato ottimo e convenientissimo; ed inoltre esser da riporre nel numero de' governi buoni, e non doversi chiamar popolare come fa la più parte de' volgari, ec. "

II principio, con cui egli prova la prima parte di quest'assunto (materia di tre nuovi .capitoli, i quali con un altro formano il secondo libro) è tutto negativo, la sconvenienza cioè o l'inopportunità d'ogn'altra specie di governo. Spiegando un tal principio, ei torna spesso alla storia, e all' uopo risale ove non risalì il Giannotti medesimo, «E chi volesse qui arguirmi con l'antichità di questa provincia, ch'ella fusse già stata sotto il governo de' re , e allegare Porsenna (scelgo dal capitolo settimo un passo, che racchiude una tesi famosa sostenuta anche dal nostro Micali contro il giureconsulto Lampredi) si potrebbe mettergli all'incontro quella medesima antichità de' Toscani, che vivevano a' cantoni com'oggi fanno li Svizzeri e le terre franche della Magna, e raccontargli di tal modo di vivere e la grandezza e la forza, perchè signoreggiarono allora gran parte d'Italia, e dall'un mare all'altro stesero l'impero, ec. »

Talvolta ei rincalza le cose dette più sopra, come in questo passo del capitolo nono, il qual sembra ad alcuni riguardi un cemento del quinto quasi affatto perduto. «Ma che ne' tempi d'oggi si trovino molti potenti nella città, n'è detto sopra abbastanza. Qui solamente aggiungneremo che, posto ciò esser vero, si metta da una banda la ricchezza, la nobiltà e la potenza di questi tali, e dall'altra parte considerisi la virtù , la nobiltà, la ricchezza di tutto il popolo fiorentino, di tutto dico accozzato insieme e non a uom per uomo ragionato (in questo senso manca al Vocabolario) e vedrassi manifestamente lui insieme essere di più valore e di più eccellenza che tutti li raccontati beni di quei grandi. E ciò per mia fè non senza ragione interviene, perchè un popolo non servile e di qualità mediocre, com'è il fiorentino, tutto insieme considerato è non altrimenti che un solo uomo, che abbia infinite mani, infiniti piedi, infinite ricchezze ed infinita virtù, la quale senza comparazione avanza quella di qualsivoglia particolare potentissimo, ricchissimo e virtuosissimo.»

In ciò, come vedete, ei non potrebb'essere più d'accordo col Giannotti. Ma ove, trattando 1'altra parte dell'assunto indicato, mostra di credere poco men che perfetto il governo del 94, per ciò solo ch'era misto, ei si tiene molto addietro da quel politico, solito penetrare un po' oltre la superficie delle cose. Anche il Giannotti (voi vi ricordate bene di quel suo mirabile secondo libro) dice, che il governo del 94, e quindi l'altro composto a sua imitazione, fu bello e profittevole alla libertà, ma pieno ad un tempo de' vizi de' governi antecedenti, che il legislatore non corresse perchè non li conobbe. Fu bello e profittevole alla libertà per ciò che riguarda la creazione de' magistrati tolta all'arbitrio de' pochi e data al generale consiglio. Per ciò che riguarda 1'introduzione delle leggi, la deliberazione della pace e della guerra e le provocazioni o appellazioni, che sono l'altre cose da cui dipende il vigore e il ben essere della repubblica, fu violento e tirannico. Una sola eccezione potrebbe forse esser fatta a così generale sentenza, allegando la legge delle appellazioni dai vari magistrati al consiglio grande nelle condanne per delitti di stato (v. il Nardi nel secondo delle Storie) ottenuta dal Savonarola sul principio del 95. Ma come questa stessa legge, o per mancanza di conservatori o per altro, fosse male osservata, lo argomentiamo dalle condanne del 96, onde il Savonarola ebbe dal Guicciardini (credo nel primo libro) nota d'infamia. Per quanto fosse allora incompleta o inesatta l'idea che avevasi della libertà, offendeva grandemente in un governo chiamato libero il sentirsi soggetti ad un potere arbitrario. Quindi il grido popolare udito spesso dal Giannotti: guarda bella libertà ch'è questa; grido che molti di noi si rammentano d'aver sentito ripetere in epoca non ancor remota. Volendo stabilir repubblica più durevole, bisogna, conchiude quel politico, stabilir repubblica la quale sia più amata. Ma essa non sarà più amata se non sarà più libera, e non sarà più libera, se i membri che la compongono non saranno più dipendenti gl'uni dagli altri, e non prevarrà veramente quello che per la costituzione della repubblica è dichiarato principale.

Quest'ultima condizione che, stando all'ultimo capitolo del secondo libro del trattato manoscritto, pareva all'autor suo molto bene ottenuta, è soggetto di nuovo ragionamento in alcuni de' primi capitoli del terzo libro della Repubblica del Giannotti. Indi le due opere procedono per così dir parallele, come potete avvedervi da queste parole del trattato: «successivamente diremo qualcosa di nuovo circa il governo, dimostrataci dall'esperienza e dal tempo, e in prima quanto alli ordini di dentro, di poi quanto a quei di fuori ed ultimamente della milizia ec.»

II discorso degli ordini interni ed esterni, ossia di ciò che il Giannotti chiama governo civile, doveva occupare altri diciassette capitoli, di tre de' quali (il 24, 26 e 27 di tutto il trattato) nel codice non si hanno che i titoli. Sarei troppo lungo se volessi accennare tutte le concordanze o discordanze , che possono trovarsi fra i quattordici che si leggono, ossia fra il terzo libro del trattato e il terzo già detto dell'opera del Giannotti. Mi limiterò dunque ad alcune più notabili, fra le quali ci si presenta prima quella de' membri che debbono comporre la repubblica. Voi vi rammentate del famoso corpo piramidato del Giannotti, la base del quale doveva essere il gran consiglio, la punta il principe, e i membri intermedii il senato e il collegio; corpo a cui egli dà anche il nome di pianta nella lettera che scrisse non meno sapientemente che infruttuosamente al gonfaloniere Niccolò Capponi, e in cui trovasi il germe del suo libro della Repubblica. L'autor del trattato manoscritto non parla propriamente nè di pianta nè di piramide, e par che s'accontenti del solo senato fra il principe e il gran consiglio. Nondimeno, come fra poco vedremo, anch'egli propone sott'altro nome il collegio del Giannotti, di cui forse non fa un membro a parte, perchè lo confonde in certo modo col principe medesimo.

Quanto al consiglio grande, voi sapete che il Giannotti trovava l'antico pressochè aristocratico, e domandava con certo sdegno: che direbbe Platone, che direbbe Aristotele, entrando in Venezia o in Firenze, e vedendo d'una sì gran moltitudine d'uomini non esser tenuto conto alcuno, salvo che ne' bisogni della città, ec. ec? Però avrebbe voluto che si ammettessero nel gran consiglio tutti i popolari, ch'erano, come dicevasi, a gravezza, e si facessero così abili a' magistrati. Ma dovendo pur stare al vecchio reparto de' cittadini, gli sarebbe almen piaciuto ch'essi entrassero in consiglio di 25 anni, onde gustar presto, com'ei dice, la dolcezza della repubblica, ed essere poi più ardenti nel difenderne la libertà.

L'autore anonimo vede anch'egli (cap. 11) «che, quando quelli, che sono la più parte della città, fossero esclusi dal governo, verriano ad essere malcontenti e inimici dello stato, e ciò sarebbe cosa pericolosa»; anch'egli crede «che il popolo tutto insieme accozzato non erri nell'eleggere i magistrati e confermare le deliberazioni senatorie, perchè in quel modo piglia l'un dall'altro prudenza e consiglio»; anch'egli pensa (cap. 12) potersi dire «che se li più ragunati insieme fanno buona elezione, li vie più la faranno migliore»; e nondimeno si decido pei non molti. «Ancor si potrebbe allegare, egli aggiunge, che essendo l'arme il nervo d'una repubblica, a voler farla armigera e potente, bisogneria dar animo a quanto più numero d'uomini fusse possibile, conciosiachè il più numero de' soldati il più delle volte superi il manco, onde chi facesse ognuno cittadino verrebbe a fare maggior numero d'amici soldati, che non pure ci difenderebbero ma che ci accrescerebbero l'imperio. E in verità che tali ragioni varrebbono, se il fine delle ben ordinate repubbliche fusse il dominare, e per conseguenza se la virtù militare dovesse a tutte l' altre preporsi. Ma perchè il vero fine di quelle è la vita felice, che altro non vuol dire che il vivere secondo le virtù morali, che di gran lunga superano la virtù dell'arme, non altrimenti che 'l virtuoso ozio si superi le fatiche (tutte queste idee son notabili per la storia della moral politica in Italia); però è bene conchiudere non esser ben fatto indirizzare tutti gli ordini della repubblica al dominare come a fine principalissimo , e così star molto meglio non allargar il consiglio nella plebaglia (nemmeno il Giannotti lo pretende) ma doversi tener un modo di mezzo fra il romano e il Veneto, come fu ordinato in Firenze, cioè non dar lo stato in mano alla plebe, nè ancora escludertela in tutto; ma darle animo con aprire ogn'anno la via di potervi entrare per qualche numero determinato, ec.».

Quali e quanti però saranno i cittadini (cap. 13) che comporranno il generale consiglio? In ciò mi rimetto, egli risponde, al giudicio de' savi, questo solamente dicendo che la mediocrità è in tutte le cose laudabile, e che la troppa moltitudine genera confusione, così come la poca fa debolezza. «Ma egli è ben ragionevole che chi ha ad esser cittadino abbi qualche ombra di civiltà, e d'ingegno, e che nei gradi ed esercizi ch'ei fa sia di costumi lodevoli e onesti. E in fra gl'uomini d'esercizio non accetterei io mai quelli dell'arti sordide, ma solamente mi ristringerei alla lana, alla seta, al fondaco, alla mercatura e al cambio, le quali arti, sebbene nel vero son da collocarsi in fra le arti meccaniche (questo scrittore o era dottor di legge o godeva i nobili ozii), nondimeno l'uso fiorentino le rilieva dalla bruttezza ov'elleno per natura loro son fatte. Vorrei oltre di questo ch'egli avesse almanco un fiorino di decima (il suo valore può vedersi nel primo volume della Decima del Pagnini) ed almeno l'avesse pagata anni 25 davanti, e ch'egli avesse abitato dentro alle mura della città. Non vorrei che 'l cittadino così diffinito potesse andar in detto consiglio se non avesse anni 28, e che bene dai 24 a' 28 vi potessero andare straordinariamente quei giovani, che in fatti o in detti o nell'arme avessino in favore della patria quest'onore meritato (e per tal dichiarazione mi piacerebbe doversi far il senato) intendendo che tal premio straordinario non si dovesse dare nè alla nobiltà nè alla ricchezza ma solo alla virtù o separata o congiunta ch'ella si fusse dalle contate qualità. Vorrei ch'e' fusse lecito ogni anno accrescer il numero de' cittadini, che avessino le proprietà conte, e ch'e' non passassino il numero di dieci da vincersi dopo la metà delle fave con i più favori. Vorrei che tai cittadini novellini per ispazio d'anni 4 non potessino esercitar altri magistrati che l'andar in consiglio, e per ispazio d' anni 25 non potessino usarne alcuno dei vinti con i più favori, ma bastasse lor quelli che di sopra furono racconti (nel cap. 12 ove propone che per alcuni magistrati principali sieno sostituiti i favori alla sorte, ciò che il Giannotti vorrebbe per tutti) quando di quei della sorte si fé menzione. Loderei ancora nell'elezione de' magistrati mandar i cittadini a partito secondo l'antica divisione di quartieri, acciò che nelle nominazioni fosse più agevolmente ognun ritrovato. Leverei in tutto via (anche il Giannotti è del medesimo sentimento) la distinzione della maggiore e della minore, per partorir tal cosa due effetti cattivi, uno per mostrar la divisione in fra i cittadini, l'altro per essere con tal ordine necessitati gl'uomini a dar sovente un magistrato a chi non è degno. Piacerehbemi che in detto consiglio si stesse con silenzio e a sedere, e ch'e' non si potesse andar da un luogo ad un altro per andar a ragionare con alcuno, nè fusse lecito a persona il parlar in pubblico senza licenzia del magistrato supremo. E quanto alle provvisioni da vincersi in detto consiglio, mi piacerebbe si vincessino con la metà de' favori tutte quelle che prima ne' luoghi più stretti fussin passate, ed approverei finalmente in questa parte tutti quelli ordini che dal divino legislatore della fiorentina repubblica furono con somma prudenza ordinati ec. ec.»

Ho riferito volentieri questo passo anche perchè racchiude qualche cenno sui costumi parlamentari del gran consiglio, ch'io non mi ricordo aver trovato in alcuna parte nè della Repubblica Fiorentina del Giannotti, nè del suo discorso, benché tutto istorico, sul governo di Firenze. Voi paragonerete , se vi aggrada questi costumi con quelli d'altre assemblee nazionali antiche e moderne. Spiacenti che manchi nel trattato uno de' capitoli più opportuni a compir il paragone, quello che s'intitola de'nominatori, o com'oggi si direbbe degli elettori. Il male però sarebbe leggiero, se un tal capitolo non fosse anche più opportuno al paragone, che naturalmente amerete fare de' principii costitutivi della fiorentina repubblica coll'altre più celebri costituzioni. A tal uopo avrete notate senza dubbio come importantissima quelle parole citate pocanzi: «mi piacerebbe si vincessino con la metà de' favori tutte quelle (provvisioni) che prima ne' luoghi più stretti fussino passate.» Esse hanno spiegazione in un altro passo del capitolo medesimo, ov'è detto che il legislator fiorentino volle che il popolo «fusse arbitro d'eleggere i magistrati e di confermar le provvisioni vinte ne' luoghi più stretti, le quali senza le confermazioni di quel popolo fussono di nessun valore.» Il Giannotti, s'io intendo bene il suo pensiero, vorrebbe all'incontro che, eccetto il caso dell'introduzione di nuove leggi , si terminassero ne' luoghi stretti le cose che l'anonimo vuol terminate nel consiglio grande; con che se si mostri più prudente o più consentaneo che l' altro a' principii stabiliti, ne lascio a voi il giudizio.

Quanto al senato (detto anche ne' passati governi il consiglio degli Ottanta o de' Richiesti) l'anonimo gli concede press'a poco 1' istess'autorità che il Giannotti, dal quale appena discorda sopra alcuni particolari dell'elezione, come potrete avvedervi dagli ultimi periodi del cap. 15. «Conchiudiamo adunque cosi, la elezione (de' senatori) per sei mesi esser migliore che quella a vita, con la podestà, dico, dell'esser raffermi. E quanto al numero d'essi mi piacerebbe osservar gl'antichi costumi, e ancor nei nomi e nei numeri, perchè il mantenimènto dell'antiche usanze si concilia grazia. Darei tal dignità all' età di 40 anni almeno, e dividerei medesimamente l'elezione per quartieri. Loderei per ben fatto di mettervi in ogni elezione 12 di minor età che anni 40, cioè da anni 30 a quel numero, facendone sempre 3 per quartiere, di maniera che tutto il numero con loro arrivassi a 80. E ciò sarebbe ben fatto per diversi rispetti, uno per avvezzar le gioventù ai consigli delle cose pubbliche, acciochè in età più matura e' fossero maggiormente prudenti, e l' altro per generar amore della patria nei cuori giovenili ed emulazione virtuosa all'imprese generose.»

Avrei potuto recarvi tutto il passo, ov' egli dice le ragioni per cui non gli pare che i senatori debban essere a vita; ma com'esse o le principali fra esse tornano in campo nel capitolo 17 (ove come nel 16 parla del principe civile) ho creduto di poter qui senza molta diminuzione del vostro piacere servir alla brevità. Il Giannotti, ben lo sapete, vuol il principe a vita, e non si accontenta, come fa proponendo che i senatori sieno per un anno, d'allegar l'esempio de' Veneziani. Ad alcune delle ragioni ch'ei mette innanzi, o fossero facili ad indovinarsi, o fossero in quel tempo ripetute da molti, par quasi che l'anonimo siasi proposto di rispondere.

«In favor dell' elezione a vita si potrebbe dire cbe l'uomo buono, stando perpetuamente alla cura della repubblica, potesse più giovarle; conciosiachè, esercitandosi più, divenisse ognor più prudente. Ma e' si potrebbe dir all'incontro che la vecchiaia, che conseguita al tempo lungo, gli facesse ancora invecchiar il senno, e che la dignità perpetua lo facesse diventar insolente e di buono cangiarlo in cattivo, essendo chiar, che le prosperità di fortuna sono per tal conto pericolose. Ma più oltre, quando un tal rischio non si corresse, guardiamo se in ogni soggetto (intendi stato) fusse bene eleggere questo principe a vita. E potrebbesi dire ch'e' non fusse bene, per non piacere a tutti una medesima cosa, essendo gli appetiti umani diversi nell'elezione de'piaceri, e però a tutti gli stati non convenirsi il principe a vita. E sebbene si potesse allegare contra l'antica Sparta, che faceva i re perpetui, e Venezia moderna, ch'elegge i dogi, e che con tal modo profitta, si potria ancor rispondere che Roma faceva i consoli per un'anno, e che l'accrebbe 1'imperio più di Sparta e che non farà mai Venezia. Senza che in esse repubbliche non si vede esser schivati i pericoli che occorrono dove si fanno i principi a vita, sì come in Sparta si dice di Pausania che tentò di farsi principe assoluto; ed in Venezia anticamente si sono sollevati molti tumulti per cagione di essi dogi, che han cerco di farsi maggiori, sì come per le storie loro apparisce. Da quai tumulti se da gran tempo in qua si son liberati, sappinne grado principalmente a quel sito (quest'idea corrisponde, se ben mi ricordo, ad altre del Machiavello nel libro primo de' Discorsi) che fa che gli eserciti forestieri e i malcontenti di dentro non possono mutarvi lo stato, e a qualche buon ordine escogitato da loro ec.

«E per venire al particolar di Firenze, io non vi approverei mai per buona l'elezione di tal principe a vita. In prima per la natura degl'ingegni fiorentini, inquieti e perciò vaghi di mutamenti, e per esservi i grandi ambiziosi e per ciò insopportanti delli perpetui onori altrui; ed oltra di questo per la tirannia sopportata, che molti cittadini ha fatto sospetti, ed a molti ha insegnato il modo di farsi cattivi. Senza che gli stessi esempi del gonfaloniere fattovi a vita confermano questo ch'io dico; chè non per altra cagione fu di quel luogo rimosso (il Giannotti nel lib. 2 non dice per unica ma certo per una delle principali ragioni) che per esservi stato fatto perpetuo. Nè questo esempio solamente cel mostra, ma molto più il secondo di Niccolò Capponi, che non a vita ma per un anno fu fatto e con permissione di poter esser raffermo; perch' e' si vide tal ordine della rafferma aver generatogli tanta invidia appresso i cittadini grandi, che alla fine con rovina della patria nostra e con gran suo pericolo si disfogò. Per il che si può conchiudere tal dignità esser alla città nostra dannosa ec.»

Non volendo peraltro mutazione ad ogni due mesi, come con poco onore e molto pericolo si usò dal 1494 al 1502; vedendo la città, per l'ultima guerra di Clemente e poi per l'ultima tirannide, venuta in tanta miseria, che a ristorarla bisogna tempo non breve; ben conoscendo che alle imprese ardue di rado si mette chi non ha speranza di poterle ei medesimo condur a termine, propone che il gonfaloniere si faccia a principio per 3 anni, finchè possa farsi per uno e senza rafferma.

Anche circa 1'autorità che gli debb'essere concessa (cap. 18) ei differisce un poco dal Giannotti, che, dopo avere nel libro secondo chiamata esorbitante 1'antica, non le impone nel terzo alcun limite particolare, affidandosi che si troverà abbastanza ristretta dai limiti imposti agli altri magistrati. «Quanto all'autorità da darsi a tal principe (ecco ciò che ne pensa l'anonimo) mi determinerei a tutta quella che fu già data a Piero Soderini e poi a Niccolò Capponi, eccettochè io non vorrei che tal principe potesse proporre una provvisione in consiglio grande se prima ella non fusse stata vinta in senato, nè in senato se prima non fusse stata approvata nelle pratiche più strette (i consigli segreti di cui parla nel cap. 22) almeno dalla metà di loro. E qui mi basti l'esempio di Pier Soderini ne' casi di Pisa nel 5, che non potendo nel senato ottenere di far tale impresa, la propose nel consiglio grande ed ottennela; perch' e' si vide che tal rosa di poi tolse la reputazione ed a lui ed al popolo, e dettela a quei cittadini che forse avevan caro di rimettere i Medici in Firenze. Ma più oltre, un tale esempio in una repubblica non sarebbe egli atto a rovinarla ogni volta che al principe venisse bene? Che se ben Piero l'usò (intendi l'autorità sua) con buon animo e in favor della patria, un altro che fusse maligno e volesse farsene principe assoluto, qual più destro modo potrebbe usare, che avendo facultà di proporre quel ch' e' volesse a un popolo, mettergli innanzi tutte quelle cose ond'e' pensasse farselo amico senz'aver rispetto al dovere ec. ec.? Quanto ai modi del suo consiglio, vorrei ch' ei si consigliasse con li dieci e con le pratiche fatte nel consiglio (grande) di che di sotto dirassi. Proibirei che tali pratiche si potessin mai allargare nei collegi o in altri magistrati che non fussino fatti con i più favori; e questo dico io per aver veduto tai modi tenuti in opposito nello stato dal 1527 al 1530 aver rovinato Firenze, i quali per esser notissimi e chiari non andrò raccontando al presente. E per mantenere tal usanza metterei io pena di stato a chiunque di tal materia proponesse altramente, o fusse questi il principe, o cittadino di magistrato, o privato. E perch' e' potrebbe accadere che il principe contrafacesse a questi ordini, e che di buono diventasse cattivo, in tal caso, per gastigarlo, userei li modi civili ec. ec. »

E qui parla non brevemente del modo d'accusare il principe (passo che non ha riscontro nel Giannotti, e supplisce in parte al cap. 27, di cui nel manoscritto del trattato non abbiamo che il titolo: dell' accuse de' magistrati) e poi di quello di supplirgli, quando egli o per accusa datagli o per infermità non possa esercitare il suo uficio. Indi viene all'autorità straordinaria, di cui talvolta può esser d'uopo investirlo, e a qualch'altra facoltà che potrebb'essere aggiunta alle sue ordinarie. «Provvederei ancora che detto principe in certi casi avesse autorità quanto tutta la repubblica in compagnia di due dei dieci, che furono eletti dal senato con i più favori, per durar tutto il tempo che piacesse al senato, e tal dichiarazione dovesse fare il senato e prima la pratica, cioè quando e' fusse tempo da dare quest'autorità dittatoria, la quale è di necessità che sia in ogni bene ordinata repubblica. Darei ancora autorità al principe, che nei suoi consigli potesse chiamar sempre due cittadini che non fussero delle pratiche, e tale usanza per li chiamati fusse onorevole, nè al principe nè a loro invidiosa, essendo per legge. E di ciò si potrebbono addurre tali ragioni, perchè il consiglio alcuna volta lasciando indietro, o per difetto delle nominazioni o per altra ragione, i buoni cervelli, la repubblica non venisse a patirne; ed ancora perchè i cittadini grandi lasciati indietro avessin modo d'intervenire alle pratiche senza danno della repubblica.»

La conchiusione del capitolo riguarda la sicurezza del principe ed è questa. «Per la conservazione di detto principe vorrei si tenesse al palazzo la guardia nel modo che di sotto dirassi, la qual guardia fusse tale non di manco che il principe non potesse più di tutto il popolo, ma ben di tal misura ch'e' potesse più di uno o di due o di pochi, che assaltar lo volessero, acciò ch'e' non fusse in arbitrio d'ogni sedizioso ammazzarlo o in altro modo cacciarlo con rovina della repubblica, sì rome nel 1512 avvenne di Antonfrancesco degl'Albizzi contra Pier Soderini, e nel 1529 di quei giovani, che si chiamavano allora volgarmente la setta delli Arrabbiati, contra Niccolò Capponi, che allora era principe. E quando pure tai casi occorressino, vorrei che sempre e per tutti i tempi avvenire fusse lecito ad ogni cittadino e privato accusar chi ciò fatto avesse in consiglio grande, e che di lui se ne dovesse pigliare quel supplicio che meritano i cittadini sediziosi.»

Nel capitolo seguente ei tratta de' consiglieri del principe, i quali corrispondono in qualche modo a' priori o procuratori del Giannotti, cioè a quel suo collegio o quarto membro della repubblica, destinato a sodisfare il desiderio di grandezza, ch'è sempre , egli dice, ne' più savi e valenti, come il senato sodisfà al desiderio d'onore, e il gran consiglio a quello di libertà. Anche i consiglieri sono dall'autore fatti partecipi del principato, e sostituiti alla signorìa, ch'ei rigetta per ragioni non dissimili da quelle del Giannotti, e ch'io qui recherò per disteso con poche altre parole sui limiti in cui debb'essere contenuto il potere del nuovo magistrato.

«E qui potrebbe dir alcuno perchè io non volessi mantenere l'antica usanza della signoria, e massime creandone un altro (magistrato) a lei tutto simile in fuor che in pochi casi, che medesimamente si sariano alla signoria proibiti? A che si risponde: per due conti; uno per fuggire la inconvenienza, l'altro i disordini. Inconvenienza sarebbe a far un magistrato col nome signorile , coll'abito e con la residenza, e di poi renderlo inutile ai casi dello stato. Chè qui interverrebbe non altrimenti che nel guardar un bell'uomo riccamente vestito, il qual poi non sapesse parlare nè muoversi, ed in tutti i suoi gesti ed atti fusse inconciono. Ma ben di questa inconvenienza sarien peggiori i disordini, quando al nome di signoria vi si aggiugnesse e la virtù e la forza; il che non con altri esempi vo' dimostrare che con li stessi nostri dal 1494 al 1502 quando e' si creava il gonfaloniere per due mesi. Chè in quel modo di vivere accadde sovente che la signoria volle far l'ufizio de' dieci, anzi parendole esser di più cervello ch'ella non era (e ciò per li eventi fu manifesto) proibì per certo spazio di tempo la creazione del magistrato detto. Dal cui ordine nacque che le faccende importanti furono governate popolarmente e senza consiglio, e per la debolezza di tal magistrato, e per la, brevità del tempo di quei due mesi, che una signoria non poteva finir mai impresa cominciata. Per ciò seguirono di dentro molte sette civili ed il caso iniquo del frate; e di fuori la perdita d'Arezzo e l'esser venuto in cattivo concetto d'ognuno, di sorte ch'e' si sarebbe perduta la libertà assolutamente e forse il dominio s'e' non si creava il gonfaloniere a vita, e non si fussino proibiti alla signoria i maneggi dello stato.»

«Dal 1527 al 1530, discorrendo più oltre, la signoria volle entrar nelle pratiche e fu consentito per manco male. Intervenne in quello stato per tal ordine usato, che le cose segrete si sparsono pel popolo, e che ciascuno ebbe materia alle pancacce di cicalare. Di qui seguì una gran presunzione ne' cittadini popolari, ed una gran diffidenza del principe col popolo, i quali due mali furono la rovina di quello stato. Ma più oltre, i tumulti civili fatti in Firenze e le mutazioni degli stati non sono tutti seguiti, con questo mezzo? E cominciandosi innanzi al 1494, chi confinava i cittadini potenti, chi toglieva loro la vita se non i parlamenti fatti dalla signoria ad arbitrio sempre di pochi? Chi diè lo stato in mano al duca d'Atene; chi lo diede a' Ciompi? Chi confinò nel 1433 Cosimo de' Medici, e chi nel 1434 il fe' principe se non il medesimo magistrato, che poi nel 1458 gli accrebbe maggior autorità? E chi nel 1513 fe' signori i Medici; chi nel 1529 sbalzò Niccolò Capponi se non questo magistrato, composto d'uomini deboli, e che sempre in guisa di palèo è stato ora in questa ed ora in quel1'altra parte rivolto da cittadini scandalosi, i quali con difficultà maggiore arebbono condotto le lor disonestissime imprese, se non fusse stata l'occasione di questo magistrato pernizioso e disutile? Ma tai disordini, dirà uno, come si potranno schivare nel magistrato de' consiglieri, avendo tal magistrato la medesima autorità che la signoria? Schiverannosi, dico, in questo modo e con non dargli autorità grande se non nei casi civili, ove sia di bisogno assettar la giustizia, e con proibire a tal magistrato nell'autorità delle sei fare tre cose: una lo esilio e la morte de' cittadini, l' altra i parlamenti, la terza il poter intervenire ai segreti dello stato, ne' quai tre casi vorrei che tale autorità gli fusse in tutto vana ec.»

II rispetto, ch'egli qui mostra per la vita e la libertà individuale de' cittadini, si manifesta vie più nel cap. 25 ove parla del magistrato degli otto «che sopra tutti gli altri è necessario per doversegli dare la balìa nell'esecuzione della giustizia, senza il cui mantenimento non si può vivere non che ben vivere.» Collocando però sì alto un tal magistrato (assai più alto del Giannotti, che ne parla appena per incidenza, mentre consacra interi capitoli ad altri magistrati minori) circoscrive però l'azion sua fra limiti assai ristretti. Poichè pare a lui che col dare a pochi molta autorità si venga a incorrere in un grande inconveniente prodotto da due cagioni «dalla cattività degli uomini che non voglion far la giustizia, e dalla paura di lor medesimi che li impedisce di eseguirla», il che accade, egli dice, ogni volta che hanno a maneggiare cittadini potenti. Quindi per le cause più gravi, come quelle per delitti contro lo stato, nelle quali appunto ciò avviene, ei propone una quarantia , qual si vide in Firenze dal 1527 al 1530. «Ma perchè, egli dice, potrebb'essere che le querele fussino poste per odio particolare, per ciò riserberei io agli otto l'autorità di potere o non potere mandar tali querele in quarantia in questo modo, che tre degli otto dovessino esser d'accordo, e tal consenso bastasse a mandarvele e senza tal consenso non vi dovessino ire. Chè, quando tal consenso non vi fusse, sarebbe segno che la querela fusse tanto disconveniente, ch'ella non meritasse d'andar in tal giudizio, a cui saria bene mantener la riputazione ec.» E per mantenergliela ei propone fra 1'altre cose, occorrendo che una querela, dopo esser stata messa tre volte, fosse trovata ingiusta « non se ne potesse far considerazione dal magistrato presente o succedente per alcun tempo.» Che se la querela si accetti, ei vuole in pro dell'accusato tutto quello che già si usava in Firenze «cioè ch'ei potesse in sua difesa parlare e per procuratore difendersi ed esser udito tre volte e in tre giorni differenziati ec.» Ciò non vale sicuramente le grandi vedute del Giannotti, che propone le due quarantie, una civile ed una criminale, come tribunali supremi d' appello all' uso veneziano. Pur mostra come anche l'anonimo pensava ad assicurare la civil libertà, che i pubblicisti moderni dicono a ragione essersi in tutte le antiche repubbliche sagrificata alla politica.

Degli ultimi capitoli (sei in tutto) riguardanti la milizia e componenti un quarto libro, che corrisponde esattamente al quarto della Repubblica del Giannotti, non vi dirò nulla, poichè non ne trovo scritto che uno solo e breve intorno a' commissari, che l'autore vuol cittadini e noti forestieri «poichè i capi forestieri o e' non voglion vincere per esser dall'inimico corrotti o per invidia alla loria tua, sì come di Paulo Vitelli si disse ; o vincendo essi, tu sei poi costretto a stare a lor discrezione come intervenne a' Milanesi di Farncesco Sforza ec.» Da queste parole potete argomentare com'egli desideri una milizia nazionale (e il titolo infatti del primo capitolo del libro di cui si, parla, 28 di tutto il trattato, è questo : la milizia appartenersi alla repubblica) nè pensi diversamente dal Giannotti, il quale, cominciando il quarto suo libro, dice di pensare in questo particolare come il suo antecessore nel segretariato della repubblica il Machiavelli.

Uscito dal confronto col Giannotti, era naturale ch'io pensassi a qual altro degli scrittori più conosciuti potea per sorte appartenere il trattato manoscritto, di cui sa il cielo se si conservi l'autografo, e se questo sia più completo della copia del codice. Un amico, a cui ne parlai, guarda, mi disse, che non sia cosa del Benivieni, gran devoto del Savonarola, e vissuto ancor a lungo, dopo averlo difeso in quell'epistola che scrisse a papa Clemente sul riordinamento dello stato di Firenze, confidatosi, come dice il Varchi (nell'undecimo delle Storie) o nella propria bontà o nella molta vecchiezza , ec. — La curiosità piuttosto che la speranza di scoprir nulla che facesse al mio uopo mi ha condotto a leggere quell' epistola, di cui abbiamo nella Riccardiana l'originale e un'assai bella copia, nella cui prefazione è detto che l'epistola fu tenuta nascosta 20 anni, onde s'intende come il Nardi non la vide che a stento e assai tardi, per ciò che scrive nel secondo delle sue Storie. Leggendola vi ho trovato ciò che il Nardi medesimo e il Varchi ne accennano ne' libri citati; e ciò basta perchè l' autor del trattato (ove pur non, si ponga nel numero de' fuorusciti) non possa confondersi col Benivieni.

Ma vediamo, ho detto, se per sorte quest'autore non fosse il Nardi, il quale nelle sue Storie, scritte in vecchiaia e con visibile studio d'imparzialità e di calma, può sembrar freddo; ma il cui calore apparisce abbastanza in que' suoi discorsi scritti in Venezia, l'uno contro i calunniatori del popolo fiorentino, l'altro per informazione delle novità seguite in Firenze dal 1494 al 1534, manoscritti essi pure nella Riccardiana coll'orazione detta in Napoli a Carlo V. Il dir egli però nel primo delle Storie che il Savonarola, nelle sue prediche sulla riforma del governo, proponeva, quasi per un esempio alla considerazione degli uditori la forma del governo e del consiglio grande di Venezia; e l'aggiugnere ch'ei fa nel secondo,.che il gran consiglio fiorentino fu ordinato in gran parte secondo i modi del consiglio veneziano, de' quali era stato principal ricordatore Paolantonio Soderini, mi ha tosto obbligato a rivolgermi altrove.

Quindi vagando di scrittore in scrittore mi son fermato un istante in Bartolommeo Cavalcanti, in grazia di quella sua lettera sulla Repubblica di Siena al cardinal di Prato che n'era governatore, e a riordinarla cercava i lumi de' sapienti, come parmi che attesti l'Adriani, e può argomentarsi anche dal discorso indirizzatogli dal Giannotti. Ma, eccetto alcune generalità derivate dal comun fonte aristotelico, non ho trovato in tal lettera altra relazione d'idee col trattato, da cui d'altronde differisce affatto per lo stile.

Un passo del Segni nel primo delle sue Storie, ove parla incidentemente delle mutazioni avvenute in Firenze dal 1215 al 1434, riferendosi pel di più alla storia del Nerli, corrisponde per tanti riguardi ad un passo dell'ultimo paragrafo della prima lunga citazione da me fatta in questa lettera, che ne ho preso gran speranza di trovare nelle Storie suddette altre corrispondenze. Ma, tranne alcune idee, comuni a quasi tutti gli scrittori politici dell'istess'epoca, non mi si è presentato di corrispondente che una frase intorno all'estinzione della stirpe medicea, di che si parla nel libro ottavo in proposito dell'elezione del duca Cosimo. Ed anche (per tacer qui dello stile) potrebbe dirsi che, se il trattato fosse del Segni, vi si troverebbe vestigio del suo grande affètto per Niccolò Capponi suo zio, a cui giustificazione principalmente par che scrivesse le sue Storie, come a tempi nostri la figlia d'un celebre ministro scrisse, a difesa particolarmente della memoria paterna, quella virile sua opera sulla francese rivoluzione.

Or vedete voi se tra que' fuorusciti, che andarono a Napoli col Nardi, e di cui parla il Varchi diffusamente nel libro 14, oppure fra que' principali cittadini, di cui dice il Segni nel quinto, che misero ad istanza di Clemente il lor parere in iscritto sulla forma da darsi al nuovo governo, vi sia alcuno, a cui con qualche verosimiglianza possa attribuirsi il trattato. Se l'autore di questo desse qualche indizio d'aver avuto parentela con Leone e Clemente o d' averne ricevuto favori, vedendolo (come in un luogo che non ho citato) sostenitore assai vivo di certe distinzioni de' grandi, crederei quasi che fosse quel Iacopo Salviati che, malgrado la parentela, i favori, l' amore delle distinzioni, ec. « non ispiccò mai l'animo dal viver civile, come quello che avvezzo nel fiore della gioventù nella repubblica vi fu molto onorato, e come affezionatissimo in quei tempi a fra Girolamo Savonarola, grande autore di quel modo di vivere, riteneva ancora questi concetti.»

Se il tempo non mi fosse mancato, avrei voluto fare altre ricerche in proposito, come avrei voluto farne per discoprir l'autore di due frammenti, che nel codice succedono immediatamente al trattato, e son l'esordio della vita d'uno degli uomini illustri della famiglia Guadagni. Il primo frammento è un elogio di Firenze, al quale bisognerebbero, giusta il concetto dell'autore, molti Svetonii e molti Plutarchi; l'altro è una notizia delle origini della famiglia già detta, a cui hanno consecrata la penna molti scrittori. Ambidue questi frammenti (i quali sembrano autografi) sono scritti in uno stile che si accosta molto a quello dell'Ammirato. Ma nè la prima parte delle sue Famiglie illustri fiorentine, la quale è stampata, nè l'altre che sono inedite nella Magliabechiana mi autorizzano ad attribuirglieli, giacchè in nessuna di esse si parla de' Guadagni se non incidentemente. Io non so se potessi attribuirli con qualche verosimiglianza al Rondinelli, che ha scritte alcune memorie sulla famiglia Guadagni, annoverate già dal Morelli fra i codici della Naniana di Venezia, ed ora probabilmente nella Marciana.

Ma a chiunque essi appartengano, mi fa grandissima difficoltà ciò che l'autore nel primo di essi dice del suo eroe (del C. G. forse Cav. Guadagni) che «sebben nacque fuor d'Italia, tuttavia l'origine sua da nobilissima famiglia fiorentina traendo, che non molto tempo innanzi di qua partitasi (ciò avvenne nel 1530) se ne andò in Francia, non si deve riputar meno che se in Firenze nato fosse, tanto più che in servigio de' granduchi di Toscana gli ultimi anni della sua vita consumò.» Quest'eroe, la cui famiglia passò in Francia non molto tempo innanzi, non può essere che quel Guglielmo, che prese parte a quasi tutte le più famose azioni di guerra a' suoi giorni operate; e in tal persuasione mi conferma una frase dell'autore, il qual dice che non proponsi di mettere in carta se non alcuni de' tanti egregi suoi fatti. Or nessuno degli scrittori, ch'io conosco (nè il Monaldi inedito nella Magliabechiana, nè il Gamurrini, nè il Mecatti, nè il Tristano, autore della Toscana Francese) dicon parola de' servigi da lui prestati a questi granduchi; e la vita, di cui ho dinanzi l'esordio che li accenna, sarebbe forse la prima, se si trovasse, a renderne testimonianza.

Dopo quest'esordio si torna nel codice ai frammenti del Varchi, ai quali tornerò io pure con altra lettera, quando sotto il canicolar fervido raggio — all'ombra scriverò d'un pin, d'un faggio.

M.


Lettere di Giuseppe Montani


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