PIER MARIA III DE' ROSSI E PIETRO ARETINO

di

Roberta Degl'Innocenti

 

Se per un grande nome della pittura italiana del Cinquecento, quale il Parmigianino, non ci sono documenti che ne certifichino ed assicurino le relazioni con la corte rossiana, ed in special modo con il marchese Pier Maria III, non si può dire altrettanto per quanto riguarda un grande nome della letteratura italiana del Cinquecento: Pietro Aretino (1492-1556). La prova più tangibile di ciò è individuabile nella corrispondenza tra i due, di cui abbiamo notizia a partire sostanzialmente dal 1537. L'Aretino scrive sempre da Venezia, dove risiede dal 1527, e Pier Maria gli risponde quasi sempre da San Secondo. Ciò che prepotentemente emerge da tali lettere è che colui che l'Ariosto definì "il flagello dei principi" ebbe invece un rapporto particolare e diverso con il Rossi: questi era infatti il nipote dell'unica persona nei confronti della quale l'Aretino fu in grado di provare affetto sincero, cioè Giovanni de' Medici, amico e protettore. E' la figura del famoso e valoroso capitano delle Bande Nere che, fondamentalmente, costituisce il punto di contatto tra i due e che quindi, ancora una volta, lascia un'importante eredità a Pier Maria, dopo quella politico-militare. Cesare Marchi scrive che "Giovanni fu una delle pochissime persone di cui Pietro parlò bene senza pretendere denaro in cambio", perché in fondo erano fatti della stessa pasta:" con gli altri imbastivano amicizie strumentali ed effimere, ma la loro fu solida e duratura fino alla morte"; e così scrive l'Aretino a Pier Maria, il 15 marzo del 1537: " E nel ricordarmi che io faccio tuttavia di lui ho sempre presente voi; io ho udito parlare il signor Giovanni, hollo veduto combattere, ne lo ascoltare il ragionamento, che ha fatto la fama di quel che faceste sotto Fiorenza e altrove. Onde non posso se non amarvi, predicarvi e celebrarvi ne la maniera che ho amato, predicato e celebrato il gran zio vostro, gloria dell'armi italiane". Tra Pier Maria Rossi e l'Aretino, dunque, si erge e domina il ricordo di Giovanni; è come se il destino, in fondo, li avesse avvicinati, prima nel particolare affetto provato per il celeberrimo condottiero, poi lasciandoli all'improvviso privi di una guida e di una protezione, ma con il compito spirituale di rispettarne e proteggerne la memoria. Nessuno deve spiegare nulla all'altro, raramente lo nominano ma sempre vi accennano, più o meno esplicitamente, perché entrambi sanno e capiscono. Scrive infatti il Rossi, il 18 aprile del 1537:"...vi dico ch'io sono quel vostro che per altri tempi mi possete aver conosciuto, perché oltra ch'io vi dono la memoria di chi più non c'è, vi sono anche tenuto per l'affezione che mi portate". In entrambi è chiara e forte la consapevolezza dell'influenza che l'uno può avere sull'altro, di quella sorta di tacito patto che li unisce; questo viene sempre prontamente e sottilmente ricordato, quasi per riportarlo alla memoria, quando necessario, qualora ci fosse il rischio di una "pericolosa" dimenticanza: "E aiutimi Iddio, come tengo per fermo che per me sia risuscitato l'immortal fratello de la vostra madre, poi ch'io sento d'esservi caro" (lettera di Pietro Aretino al conte di San Secondo, datata 10 maggio 1537).

Afferma il Flora che "la parola di Pietro Aretino va sempre di là dal segno del suo incerto sentire, perché anche di fronte all'immediatezza del sentire è un mezzo e non un fine . Troppe volte non soltanto è finta l'adulazione, ma anche la maldicenza, giacché egli non crede a quel che inventa per lode o per biasimo: e il suo fine non è diretto a lodare o a far maldicenza, ma ad ottenere danari e doni... Il suo istinto di preda e di lussuria gli suggerisce espressioni che recano l'impronta della falsità, nella lode o nel biasimo". Tutto questo, a ben guardare, è rintracciabile anche nella corrispondenza con Pier Maria: quasi "protetto e giustificato" dall'amore per Giovanni de' Medici, l'Aretino chiede al conte di San Secondo la protezione presso il nuovo duca Cosimo (Venezia, 10 maggio 1537); gli si raccomanda e gli si dà "tutto in preda... e alla grazia vostra raccomando l'affezion mia" (Venezia, 15 marzo 1537); Pier Maria, dal canto suo, non può che mandargli "vinti scudi d'oro", scusandosi se sono pochi "perché ho tanta spesa al presente alle spalle che mi consumo" (San Secondo, 8 aprile 1544), oppure ricordargli, come cosa certa, "ch'io sono e sarò sempre tutto suo, desideroso di farle piacere" (San Secondo, 21 novembre 1546). Il Rossi, tuttavia, sembra conoscere il "gioco", non soltanto dell'Aretino, ma anche quello che in fondo entrambi si trovano a "giocare"; così, in una lettera da Mantova del 2 novembre 1540, lo rassicura:" Siete delli cari amici ch'io m'abbi", non dimenticando però di specificare: "tanto più che siamo ambidua alieni della felice memoria del signor Giovanni". E' questa loro comune condizione che d'altra parte, come già evidenziato, fa la differenza nel loro rapporto, rispetto a quelli che l'Aretino ebbe con altri principi e potenti: Pier Maria è "protetto" ed alieno da ogni infamia e vituperio, per cui, ad esempio, sia il Flora che il Basteri e Rota, ricordano che nei Dispacci dell'ambasciatore Benedetto Agnello, nel resoconto del 13/12/1532, si rende conto che "l'Aretino ha fatto un iudicio sopra tutti li principi christiani et il turco, mordendo qualunque d'essi al suo solito, salvo che il conte Pietro Maria da San Secondo alquanto lodato...". Il signore sansecondino ben sa qual è la sua fortuna, agli occhi del suo illustre corrispondente, e questi ci tiene a rammentarglielo: odio e malvagità, su di lui, non possono aver la meglio "peroché, oltra che il cielo vi concesse per libero dono la valentigia e la prudenzia, ereditate le strenue qualità de lo eroico zio vostro, la magnanimità del quale mai non trasse dai mestieri de la guerra alcun guadagno vile ma, combattendo in memoria de la virtù propria, fece da i sedici a i ventotto la sua mortalitade immortale"(Venezia, 9 ottobre 1541). L'Aretino non scrive esplicitamente che a Pier Maria spetterà la stessa immortalità dell'ormai mitico zio Giovanni, ma certamente sa, "dando orecchie a le voci de la fama che vi celebra" (Venezia, 9 ottobre 1541), che egli è e sarà meritevole di "laudi"; e così infatti, nel prologo della Orazia, La Fama parla anche del "conte Pier Maria"!

A colpire ulteriormente la nostra attenzione in questo scambio di lettere tra Venezia e San Secondo sono ancora tre missive e per un motivo un po' particolare: ad accomunare gli animi del feudatario sansecondino e del suo famoso corrispondente, vi sono non solo l'affetto e il rispetto per l'amico e protettore Giovanni, ma anche, a quanto pare, "faccende d'amore". Con queste parole l'Aretino si "confida" con Pier Maria:" E credamisi pure che ne l'età ch'ora mi trovo Amore fa di me ciò che non ardì fare in quella che già mi trovava. Ma io l'ho caro, perché mentre sto ne i suoi trastulli non mi ricordo de la vecchiaia. Certo gli spassi amorosi sono i giardini de la vita, la quale tanto è giovane quanto di quegli si gode; e che stesse innamorato del continuo, potria dire:-Io son visso sempre di venticinque anni-" (Venezia, 10 maggio 1537). La risposta del conte costituisce per noi forse l'unico documento che possa fornirci di lui un'immagine più privata, oltre che inconsueta: "Mi piace siate involto ne i lacci d'amore, et invero questo è l'ultimo pensiero de tutti li spirti gentili, de tutte le professioni, così delle lettre, como delle arme. Sì che non v'incresca questa dolce pregione, et anch'io in queste villa ne provo la parte mia" (San secondo, 18 maggio 1537). Pier Maria, dunque, accoglie e ricambia le confidenze di colui che, quanto nessun altro, può essere informato del suo stato d'animo ( vedi lettera da San Secondo, 18 aprile 1537) e, come nota il Flora, egli "doveva essere molto competente in giostre e faccende d'amore, se l'Aretino quando gli scriveva, pur toccando altri temi d'importanza personale o politica, si diffondeva in dissertazioni amorose". Una vera e propria dissertazione amorosa è infatti l'ultima lettera su tale argomento inviata al Rossi da Venezia il 24 giugno del 1537:"Ma ogni altra cosa è ciancia eccetto l'avere adosso quel diavolo d'Amore che non perdonando a la vecchieza mia è da credere che non perdoni anco la gioventù vostra... Veramente ch'io ho più compassione a chi pate amando che a chi si muor di fame o a chi va a la giustizia a torto... la crudeltà che cade sopra uno innamorato è uno assassinamento fattogli da la fede... e conchiudo che son zuccaro i fastidi predetti a comparazione del martello de la gelosia, del'aspettare, de le bugie, de gli inganni con cui sei crocifisso dì e notte".

Cos'è allora l'amore per l'Aretino? A Pier Maria scrive prima di "trastulli" e di "spassi amorosi", ma presto i "lacci" del sentimento si fanno sempre più stretti, fino a far passare l'uomo dal paradiso all'inferno! Nella corrispondenza con il marchese l'Aretino sembra mostrare una particolare vena poetica, dai toni quasi stilnovistici e cortesi, con cui Pier Maria dimostra di essere in perfetta sintonia, scegliendo un'espressione quale "dolce pregione". Eppure, l'amore vissuto da Pietro è anche e soprattutto quello del gaudente, del misogino, del poligamo, quello fatto di sensualità e di oscenità, di cui le cortigiane erano principalmente il simbolo. Egli lo rappresenta, ad esempio, nel Ragionamento della Nanna e della Antonia e nel Dialogo nel quale la Nanna insegna alla Pippa (1534), ma nulla tuttavia riesce ad essere più esplicito di quello che ancor oggi merita la definizione di "libro maledetto del Rinascimento": I Modi... cui posero mano Marcantonio Raimondi, Giulio Romano e Pietro Aretino. La curatrice dell'edizione da noi considerata, che è poi anche l'unica nel suo genere dal momento che tale opera fu oggetto di una continua censura, presenta così questo "caso" letterario ed artistico:" uno dei libri più curiosi che siano mai stati pubblicati: una serie di stampe del XVI secolo, illustranti le posizioni dell'atto sessuale e accompagnate da un gruppo di sonetti"; ed ancora: "I Modi costituiscono una galleria, in forma d'album, di sedici diverse cortigiane reali (con i loro nobili amanti), ognuna con un nome ed un'arte speciale". L'autore dei 16 componimenti lussuriosi è appunto Pietro Aretino (probabilmente nel 1525) che, come ricorda la Lawner riportando il testo della sua "eloquente lettera" a Battista Zatti, non solo fu spinto a scrivere queste poesie "da un impulso improvviso che lo colse mentre guardava i disegni di Giulio Romano", ma candidamente dichiarava pure: "Che male è il veder montare un uomo adosso a una donna?".

L'amore, dunque, per l'irriverente scrittore si fa anche e soprattutto gioco erotico, trionfo della voluttà e della carnalità: ciò, sostanzialmente, è quello che si legge nei Modi ed è proprio a partire da questo che nasce il nostro interesse per un'opera simile. Non va infatti dimenticato che "il grande pittore manierista rinascimentale i cui disegni costituirono la base di partenza dei Modi", altri non è che Giulio Romano (1499-1546), l'artista che, in seguito allo scompiglio e all'ira causati da tali sue creazioni artistiche, colse al volo l'opportunità di trasferirsi da Roma a Mantova, divenendo, fino alla sua morte, il più noto ed apprezzato artista presso la corte gonzaghesca.

Ecco allora che ancora una volta, nell'ambito di questo capitolo dedicato all'età di Pier Maria III, il discorso torna a chiamare in causa Mantova, sulla base di un susseguirsi di riflessioni e constatazioni che non possono lasciare indifferenti. L'età di Giulio Romano a Mantova corrisponde sostanzialmente a quella del marchesato di Pier Maria III a San Secondo, anni in cui viene realizzato anche il soffitto con le storie dell'Asino di Apuleio. In merito a queste, come già accennato tra le pagine della vicenda critica (vedi cap.I), non sono mancate le osservazioni sull'effettiva oscenità e volgarità sia di alcuni passi del testo letterario, sia di alcuni degli episodi raffigurati. Alcune scene del soffitto sansecondino, quali ad esempio quella in cui Lucio deve subire la "punizione" dei tizzoni ardenti (scena n°10), o quella in cui egli si appresta all'amplesso con la facoltosa matrona ( scena n°15), seppur evidentemente lontane, stilisticamente, formalmente e iconograficamente, dalle raffigurazioni dei Modi, stupiscono comunque per la loro semplice e veritiera resa, praticamente "senza veli". Del resto, si può pensare che queste immagini, volute dal marchese di San Secondo per la sua camera da letta, non avrebbero certamente potuto scandalizzare la corte gonzaghesca del marchese Federico II, il quale aveva accolto presso di sé non solo il "peccatore" Giulio Romano, ma anche il suo illustre "collega" Pietro Aretino! Quest'ultimo, in particolare, trovò rifugio a Mantova dalla fine del 1526, subito dopo la morte del caro Giovanni de' Medici, fino alla primavera del '27, ma i rapporti con Federico, ormai duca, si conclusero bruscamente solo nel '31. Il Luzio ci racconta, ad esempio, di Amori mantovani dell'Aretino e della compiacenza vergognosa del marchese Federico: "Stando a Mantova nel febbraio del 1527, Pietro s'era invaghito d'una Isabella Sforza: e in sonetti osceni aveva celebrato quest'amore come un avvenimento, perché tutt'immerso nei vizi nefandi dell'epoca egli se la faceva poco con donne e preferiva altri diletti erotici... L'Aretino si aprì liberamente col Marchese per queste passioni tormentose... e il Gonzaga mostrò tutta la miglior volontà di compiacerlo". Ancor più esplicito ed interessante poi, è un passo di una lettera scritta dall'Aretino al Gonzaga ( Venezia, 6 ottobre 1527) che viene inserita tra quelle di argomento artistico: il mittente fa riferimento in particolare ad "una Venere sì vera e sì viva, che empie di libidine il pensiero di ciascun che la mira", con cui "messer Iacopo Sansovino" avrebbe dovuto ornare "la camera" del marchese. In nessuna di queste lettere sull'arte compare come destinatario Pier Maria Rossi ed anche gli sfoghi amorosi che l'Aretino indirizzerà a lui, come si è visto, saranno posteriori a questi mantovani e non oscenamente espliciti, anzi! Tuttavia, ci è sembrato interessante ed intrigante rilevare come non solo l'Aretino abbia avuto contatti epistolari con entrambi i marchesi, quello di Mantova e quello di San Secondo, ma come anche argomenti e "faccende amorose" di vario tipo non abbiano lasciato indifferente nessuno dei tre uomini. Ancora una volta, in merito a Pier Maria Rossi e alla sua età, non vi sono documenti espliciti ed è quindi di nuovo necessario muoversi per ipotesi e supposizioni, "guidate" però, in un certo senso, da quanto sottolineato e riassunto sin qui: la corte gonzaghesca di Federico II non avrebbe potuto in fondo condannare le scelte figurative e tematiche di alcuni dei riquadri sansecondini, né tantomeno l'"aria" respirata da Pier Maria attraverso i contatti con Mantova avrebbe potuto farlo eventualmente desistere da alcune leziose e accattivanti scelte.

A conclusione di questo paragrafo, è giusto sottolineare e ricordare che "grandi" nomi quali quelli del Parmigianino e dell'Aretino sono stati messi significativamente in relazione al marchesato di Pier Maria III. Ciò contribuisce a "dare lustro" agli anni in questione, offrendo un'ulteriore prova, questa volta in campo culturale, del superamento degli angusti confini sansecondini da parte di Pier Maria. Un superamento di cui, in tutto questo capitolo, si è cercato di rintracciare e mettere in luce le tappe fondamentali, a partire dalle stesse imprese militari del marchese. Un superamento, inoltre, sicuramente favorito dagli stretti rapporti con i Gonzaga e con Mantova, la cui influenza si è potuta ravvisare ed ipotizzare nel corso dell'analisi degli orientamenti culturali caratterizzanti la corte sansecondina di Pier Maria III.

(Estratto dalla tesi di laurea "La Stanza di Apuleio nella Rocca di San Secondo" - Relatore: prof. Arturo Calzona - Correlatore: prof. Giusi Zanichelli - Università di Parma - Corso di Laurea in Lettere - A.A. 1997-98 / III sessione)

 


 

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