LETTERE - Libro I - 4

La lettera, pubblicata per la prima volta a Venezia nel 1538 dal Marcolini quale editore del Libro I delle Lettere, risulta essere una delle più toccanti e significative di tutto l'epistolario aretiniano. In essa viene ricordata l'agonia e la morte del più grande amico di Pietro Aretino, il mitico condottiero di ventura Giovanni de' Medici detto delle Bande Nere. Sorta di testamento  del grande eroe, in un passo viene prefigurato dallo zio il passagio di consegne al nipote Pier Maria III de' Rossi Conte di San Secondo. Per i motivi di alta drammaticità e gli innegabili risvolti umani e politici connessi, la lettera viene ripresa in tantissime edizioni, anche miscellanee, oltre che nelle moderne biografie del condottiero mediceo (si citino per tutti il Marchi ed il Tabanelli). Ovviamente non poteva mancare anche nella nostra rassegna.

 

A

A Messer Francesco degli Albizi

 

Ne l'appressarsi l'ora che i fati con il consenso di Dio avevano prescritto il fine del signor nostro, l'alterezza sua si mosse con la solita terribilità inverso Governo, nel circuito del qual si erano fortificati i nimici, e travagliandosi intorno ad alcune fornaci, ecco (oimè) un moschetto che gli percuote quella gamba già ferita d'archibuso. Né si tosto il colpo fu sentito da lui, che ne l'essercito cadde la paura e la maninconia, onde morì l'ardire e la letizia nel cor di tutti. E ognuno, scordatosi di se proprio, pensando al caso piagneva, rammaricandosi che la sorte avesse senza proposito fatto morire così nobile e sopra ogni secolo e memoria eccellentissimo duce, in tanto principio di fatti sopraumani e nel maggior bisogno d'Italia. I capi che con carità e venerazione lo seguitavano, rimproverando a la fortuna i danni loro e la temerità sua, intraducevano nei lamenti la sua età e fatica matura, la quale era sufficiente in ciascuna impresa e d'ogni difficultà capace. Essi sospiravano la grandezza dei suoi pensieri e la ferocità del suo valore; né potevano raffrenar le voci nel ramentarsi con che domestichezza  se gli era fatto compagno fin con l'abito, e non tacendo l'acuta providenza del suo ingegno né l'astuzia del suo animo, riscaldavano con il fuoco de le querele la neve, che smisuratamente fioccava mentre in letiga si condusse a Mantova in casa del signor Luigi Gonzaga. Dove la sera medesima venne a visitarlo il duca d'Urbino, il quale l'amava perché egli l'adorava e l'osservava di sorte che temeva fin di parlare in sua presenza, e di ciò era cagione il merito suo. Tosto che lo vidde mostrò gran consolazione, ed egli con sincero modo, vista la commodità, disse: << Non basta voi l'esser chiaro e glorioso nel mestier de l'armi, se non rilevate cotal vostro nome con la religione sotto le cui osservanze siamo nati >>. Ed egli, inteso che sì fatto parlare tendeva a la confessione, rispose: << Io, come in tutte le cose sempre feci il debito mio, bisognando il farò anco in questo >>. E così, partito lui, si mosse a ragionar meco, chiamando Lucantonio con estrema affezione; e dicendo io: << Noi manderemo per lui >>, << Vuoi tu >>, disse << che un par suo lasci la guerra per veder amalati? >>. Si ricordò del Conte di San Secondo, dicendo: << Almen fusse egli qui, che gli restarebbe il mio luogo >>. Talvolta si grattava la testa con le dita; poi se le metteva in bocca con dire: << Che sarà? >>; replicando spesso: << Io non feci mai tristizia niuna >>. Ma io, esortato dai medici, vado a lui dicendogli: << Io farei ingiuria al vostro animo, se con partole dipinte volessi persuadervi che la morte sia la curatrice dei mali e più paurosa che grave; ma perché è somma felicità il fare ogni cosa liberamente, lasciativi tor via il guasto de l'artellaria e in otto giorno potrete far reina Italia, che è serva; e sia il zoppo con cui rimarrete invece de l'ordine del re che mai voleste portare al collo, perché le ferite e la perdita dei membri sono le collane e le medaglie dei famigliari di Marte >>. << Facciasi tosto >>, risposemi egli. In questo entrarono i medici, ed esaltando la fortezza de la deliberazion sua, terminar per la sera l'ufficio che dovevano; e fattogli pigliar medicina andarono a ordinare gli strumenti per ciò. Era già l'ora di mangiare quando il vomito lo assalì; ed egli a me: << I segnali di Cesare! Sì che bisogna pensare ad altro che a la vita >>; e ciò detto, con le mani giunte fe' voto di andare a l'apostolo di Galizia.  Ma venendo il tempo e compariti i valorosi uomini con gli artifici atti al bisogno, dissero che si trovassero otto o dieci persone che lo tenessero mentre la violenza del segare durava. << Neanco 20 >>, disse egli sorridendo, << mi terrebbero >>; e recatosi là con fermissimo volto, presa la candela in  mano nel far lume a se medesimo, io me ne fuggii. E serratemi l'orecchie, sentii due voci sole, e poi chiamarmi; e giunto a lui, mi dice: << Io son guarito! >>, e voltandosi per tutto ne faceva una gran festa. E se non che il duca d'Urbin non volse, si faceva portare oltra il piede con il pezzo de la gamba, ridendosi di noi che non potevamo sofferire di veder quello che egli aveva patito. E altro fu la sofferenza sua che quella d'Alessandro e di Traiano, che fecer lieto viso nel cavarsigli il ferro piccolissimo de la freccia e nel tagliarsigli il nerbo. Insomma il dolore che gli era scemato, due ore innanzi giorno ritornò in lui con tutte le spezie dei tormenti; e odendomi io percuotere in fretta la camera, mi si trafisse l'anima, e vestito in un tratto corro là. Ed egli, tosto che mi vidde, cominciò a dirmi che più fastidio gli dava il pensare ai poltroni che il male, cianciando meco per rinfrancar, col non dar cura a la sua disgrazia, gli spirti circundati da l'insidie de la morte. Ma ne l'alzarsi il dì le cose peggiorarono di modo che egli fece testamento, nel qual dispensò molte migliaia di scudi in contanti e in robbe fra quegli che l'avevano servito, e quattro giuli per la sua sepoltura; e il duca fu essecutore. Venne poi a la confessione cristianamente, e vedendo il frate gli disse: << Padre, per esser io professor d'armi son visso secondo il custume soldatesco, come anco sarei vivuto da religioso se io avessi vestito l'abito che vestite voi; e se non che non è lecito, mi confessarei in presenza di ciascuno, perchè non feci mai cose indegne di me >>. Era passato vespro quando la innata benignità del marchese, mossa da se stessa e dai miei preghi, venne a lui basciandolo tenerissimamente con parole ch'io per me non averei mai creduto che niun principe, salvo Francesco Maria, avesse saputo formarle. E con questi propri detti conchiuse sua eccellenza: << Da che la terribilità de la natura vostra non si è mai degnata di mettere in suo uso ogni mia cosa, aciò che appaia che così era come io desiderava, chiedetemi una grazia che si convenga a la qualità vostra e a la mia >>. << Amatemi quando sarò morto >>, rispose egli. << La vertù con cui vi sete conquistata cotanta gloria >>, dice il marchese, << vi farò da me e dagli altri adorare, nonché amare >>. A la fine egli mi si voltò e comandommi ch'io facessi che madonna Maria gli mandasse Cosimo; in questo la morte, che lo citava sotterra, gli raddoppiò le tristezze. E già la famiglia tutta, senza osservar più la modestia del rispetto, gli ondeggiava, rimescolata coi suoi maggiori, intorno al letto, e adombrata da una fredda manincomia, piagneva il pane, la speranza e la servitù che ella con il padrone perdeva, sforzandosi ciascuno di riscontrar gli occhi con gli occhi suoi per dimostrargli il tedio de l'afflizione. In cotali raggiramenti egli prese la mano di sua eccellenza, dicendogli: << Voi perdete oggi il più grande amico e il meglior servitore che aveste mai >>. E sua signoria illustrissima, contrafacendo la lingua e la fronte, dipingendo la sembianza di letizia finta, tentava pur di fargli credere che guarirebbe; ed egli, che per il morir non si spaventava se ben ne aveva la certezza, entrò a parlargli del successo de la guerra: cose che sarebbono state stupende sendo egli tutto vivo, nonché mezzo morto. E così si rimase travagliando fin presso a le nove ore de la notte, vigilia di Santo Andrea; e perchè la sua passione era smisurata, mi pregava che io lo facessi adormentare con leggere; e così facendo il vedeva consumar di sonno in sonno. A la fine, dormito ch'ebbe un quarto d'ora, destossi dicendo: << Io sognava di testare, e son guarito, né mi sento più niente; e se vado megliorando così, insegnarò ai tedeschi e come si combatte e come io so vendicarmi >>. Ciò detto, il lume intrigandogli le luci, cedeva a le tenebre perpetue; onde, da se stesso chiesta la estrema unzione, ricevuto cotal sacramento, disse: << Io non voglio morire fra questi impiastri >>; onde fu acconcio un letto da campo, e ivi posto, mentre il suo animo dormiva, fu occupato da la morte. Cotale fu il successo del gran Giovanni dei Medici, il quale ebbe da le fasce quanto aver si poteva di generosità. Il vigor de l'animo suo era incredibile, la liberalità fu in lui maggior del potere, e più donò ai soldati che per sè soldato non lasciò; la fatica sempre sostenne con grazia de la pazienza, l'ira nol signoreggiava più, e aveva trasformato il suo fare in dire. Egli apprezzava più gli uomini prodi che le ricchezze, le quali desiderava per isfamarne loro. Ed era difficile a conoscere da chi nol conosceva, e ne le scaramucce e negli alloggiamenti i suoi da lui: perché combattendo si dimostrava sempre ne la persona dei privati e dei gradati; e standosi in pace mai non fece differenza da se stesso agli altri, e ne la viltà dei panni con cui disornava la persona era il testimonio de l'amore che portava a la milizia, ricamandosi le gambe, le braccia e il busto con i segni che stampavano l'armi. Fu cupidissimo di lode e di gloria, ma col fingere di sprezzarle, le desiderava. E quel che tirava a sè il core de le genti sue era il dire nei pericoli: << Venitimi drieto! >>; e non << Andatimi inanzi! >>. Né si dubiti che le virtù fur de la sua natura e i vizi de la sua giovanezza; e Dio volesse che fusse visso i debiti giorni, che ognuno l'averebbe conosciuto de la bontà che l'ho conosciuto io. Ed è certo che avanzò di amorevolezza tutti gli amorevoli; il suo fine era la fama e non l'utile, e le possessioni vendute al suo figliuolo per suplire dove mancavano le paghe, sanno che io lo vanto con i meriti, non con l'adulazioni. Fu sempre il primo a montare a cavallo e l'ultimo a scendere, e del combatter solo godeva l'ardore de la sua audacia. Egli proponeva ed esseguiva, e ne le consulte non si faceva altiero con dir: << Le imprese si governano con la riputazione >>; ma poneva a sedere il consiglio dove faceva di mestier la spada.  Ed era sì propria sua l'arte de la guerra che la notte metteva su la dritta strada le scorte che si smarrivano guidandolo. Fu mirabile nel tener pacifiche le discordie dei soldati, soprastandogli sempre sempre con l'amore, con la paura, con la pena e col premio. Né mai uomo meglio di lui seppe dispensare gli inganni e la forza ne lo asaltare i nemici; né armava il core con terribilità mendicata, ma con l'ardire naturale fulminava detti spaventosi. L'ozio fu il  suo capital nemico; né alcuno innanzi a lui adoperò cavalli turchi; egli introdusse le commodità degli abiti ne le facende militari. Ebbe sommo piacere de la copia de le vivande, non dilettandosene; con l'acqua tinta di vino si spegneva la sete. Insomma ognuno il può invidiare, e niuno imitare; e Fiorenza e Roma (Dio voglia che io menta!) tosto saprà ciocché sia il suo non esserci. E già odo i gridi del papa, che si crede aver guadagnato nel perderlo. 

Di Mantova, il 10 di decembre 1526.

Pietro Aretino

 

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