(Giulio Alessandro Bocchi)
Viva Italia! sacro un patto/ Tutti stringe i figli suoi:/ Esso alfin di tanti ha
fatto/ Un sol popolo d'eroi!»: nel 1849, durante la Repubblica, Romana, Giuseppe
Verdi fa iniziare «La Battaglia di Legnano» così, a dispetto di qualche
reminescenza leghista che può suscitare il titolo dell'opera. «Viva Italia forte
ed una/ Colla spada e col pensier!/ Questo suol che a noi fu cuna,/ Tomba fia
dello stranier! », prosegue il coro: è abbastanza per far sembrare sbiadito il
patriottismo di «Fratelli d'Italia», spesso visto come quell'allegra marcetta
che ci ricorda la vittoria ai mondiali di calcio. E molti vorrebbero che l'Inno
Italiano fosse verdiano, magari un "Va pensiero"! Ci sarebbe già «Suona la
tromba» (un inno di Verdi su testo di Mameli, composto a Roma nel '48), ma non
ha avuto "successo" e lo stesso compositore nel suo «Inno delle Nazioni» ha
deciso che l'Italia fosse rappresentata proprio da «Fratelli d'Italia».
C'è anche un inno nazionale «La Patria» (con la musica dell'«Ernani» su testo di
Michele Cucciniello), ma è dedicato a Ferdinando II di Borbone: nel '48 ha
concesso la Costituzione e la partenza di un contingente contro l'Austria,
eppure non è considerato un monumento del Risorgimento Italiano. Verdi, invece,
sì! O, forse, no?
Vittorio Messori, nell'articolo «Tra politicamente corretto e miti» comparso in
giugno sul mensile "Il Timone", cerca di fare pulizia di alcuni luoghi comuni,
tra i quali il patriottismo di Verdi.
[...Parlando sempre di miti. Abbiamo appreso a scuola che coloro che erano
oppressi dall'Austria gridavano e scrivevano sui muri, per manifestare il loro
dissenso, «Viva Verdi!», intendendo «Viva Vittorio Emanuele Re D'Italia!». Il
musicista emiliano è, nel pantheon risorgimentale, un busto intoccabile.
D'accordo, ci fu anche un suo impegno "italiano", ma piuttosto tardivo. Ci
commuoviamo ascoltando il "Va pensiero", il coro del Nabucco, e lo interpretiamo
come anelito verso l'indipendenza e l'unità nazionale. Così ci hanno raccontato.
Ma non ci hanno detto che quel Nabucco, rappresentato alla Scala i19 marzo del
1842, è dedicato nientemeno che a Maria Adelaide d'Asburgo, figlia dell'arciduca
Ranieri, Viceré dell'Impero Austriaco a Milano. Dunque, giusto il nemico giurato
di ogni "Risorgimento".
L'anno dopo, Verdi fa rappresentare I Lombardi alla prima crociata il cui "O
Signore dal tetto natio" diverrà «la bandiera emozionale dei patrioti italiani»,
per dirla con lo storico Giorgio Rumi. Sarà. Ma c'è un problemino pure qui. Il
musicista dedica I Lombardi ancora a un Asburgo, alla figlia dell'Imperatore
d'Austria, a Maria Luigia, già moglie di Napoleone ora duchessa di Parma Alla
dedica, Verdi aggiunge una supplica imbarazzante: «Sarà eterna la mia
gratitudine e immenso il beneficio se io potessi venire dalla generosità della
Venerata Nostra Sovrana onorato di un qualche distintivo il quale nulla più
lascerebbe desiderare per la sicurezza di una splendida carriera». Maria Luigia
era una persona amabile, ancor oggi i parmigiani la ricordano con simpatia, ma
il suo governo era inesistente, essendo il ducato null'altro che un protettorato
dell'Austria, vigilato dalla polizia e dall'esercito della Monarchia di Vienna.
La patetica supplica per un "distintivo" concesso da una simile fonte mal si
accorda con il mito del Verdi profeta dell’Unità sotto i Savoia. Ma, anche qui,
che importa? Il mito è mito...]
Vale la pena di sentire alcuni musicologi parmigiani per togliersi il dubbio.
Secondo Corrado Mingardi non c'è alcun dubbio sul patriottismo di Verdi, non è
nemmeno il caso di parlarne: le dediche ai regnanti Asburgo non servono, quello
che contano sono i fatti!
Per Marcello Conati si tratta di aberrazioni: cosa c'entrano le dediche e la
richiesta di un "distintivo" con il patriottismo? Verdi era un uomo del suo
tempo ben inserito nella realtà ed era perfettamente naturale questo
comportamento "di circostanza" per un musicista. Ma è stato amico di Mazzini,
forse un membro segreto della "Giovane Italia", ed ha partecipato attivamente
alla Repubblica Romana. È rimasto repubblicano per tutta la vita anche se era
rispettoso di casa Savoia. Conati, a dimostrazione dello spirito patriottico di
Verdi, cita una lettera diretta ad Eugène Scribe librettista di «Les Vèpres
siciliennes»: «Io non farò nulla che metta in cattiva luce il popolo italiano!».
Gustavo Marchesi parla di mania di revisionismo. Le dediche spesso erano opera
degli editori (la pubblicità non è mai abbastanza) e servivano, comunque, ad
ingraziarsi la censura con la quale i musicisti dovevano sempre confrontarsi. E
Verdi con la sua indole ribelle e "carbonara" ha sempre creato scompiglio:
bastava l'aria «Ernani, involami», anche se priva di ogni connotazione politica,
ad infiammare lo spirito di libertà degli Italiani! Con Cavour (che lo aveva
spinto a diventare deputato dopo l’Unítà d'Italia) aveva grandi progetti di
riforma dell'educazione musicale. Verdi non imbracciò il fucile nel'49, a difesa
della Repubblica. Romana, come Mameli che morì, ma mentre il poeta aveva già
scritto «Fratelli d'Italia», il musicista doveva ancora comporre le opere più
importanti.