30 dicembre 2003

    

    Gli ultimi due anni di vita del Parmigianino costituiscono un aggrovigliata matassa difficile da dipanare soprattutto in seguito a quanto ha scritto Vasari nelle «Vite», dando versioni differenti tra la prima e la seconda edizione, dove ha calcato l'accento sulla presunta esaltazione fanatica dell'artista per l'alchimia a danno della pittura mentre ha ignorato fatti riportati in precedenza.
    Questo luogo comune di Francesco Mazzola irretito dall'alchimia è duro a morire nonostante i fatti concreti (ossia gli straordinari capolavori creati dall'artista proprio negli anni «incriminati») lo smentiscano ampiamente. Così come viene ripetuto, ultimamente anche da Sgarbi, l'altro episodio, inventato alla fine del '700 in seguito all'errata lettura di un documento, secondo cui il Parmigianino avrebbe cancellato «qualcosa» alla Steccata: un gesto di sapore romantico, bello da raccontare ma del tutto fuori dalla mentalità dell'epoca: oltretutto l'arcone era finito e così è rimasto mentre la decorazione dell'abside non era ancora cominciata come si coglie nel rogito del 1544 trascritto da Marzio Dall'Acqua «Francesco... facesse e dipingesse la fascia e sottofascia con i lacunari, ma non la nicchia, e di poi cessasse» (non «cassasse»!).
    Per cercare di sbrogliare l'intrico, dovuto al fossilizzarsi solo su alcune delle affermazioni vasariane, bisognava trovare una strada nuova, che le superasse pur tenendone conto. E questa l'ha individuata e percorsa Giuseppe Bertini in un illuminante studio su «Parmigianino e i conti Rossi fra San Secondo e Casalmaggiore», che uscirà negli atti del convegno di Casalmaggiore e che ricostruisce in modo convincente l'ultimo periodo di Francesco; inquadrandolo «negli avvenimenti della vita cittadina e con le vicende in cui furono coinvolti i suoi maggiori committenti». 
    L'artista, come sappiamo, era strettamente legato ai Baiardi e il cavalier Francesco «suo molto familiare e amico» e ufficiale della Confraternita che reggeva la Steccata, aveva garantito personalmente l'esecuzione degli affreschi nel tempio mariano da parte del Parmigianino entro i termini stabiliti. I Baiardi erano i maggiori esponenti della fazione guelfa dei Rossi in perenne contrasto con quella ghibellina, guidata dai Sanvitale, Pallavicino e da Correggio. Nel 1538 la parte guelfa era caduta in disgrazia in quanto, durante il soggiorno a Parma di Paolo III, Andrea Baiardi con Massimo Balestrieri e altri giovani avevano ucciso un capitano della guardia pontificia e il papa aveva fatto esiliare i genitori dei giovani e confiscare i loro beni.
    Il Parmigianino di conseguenza veniva a trovarsi senza protettori e così, come ha riportato il Vasari nella prima edizione, si recava a San Secondo nel castello di Pier Maria Rossi, dove il conte si era ritirato dopo aver partecipato ad alcune spedizioni al servizio di Carlo V e si fermava per alcuni mesi. Era in questo periodo quindi che Francesco dipingeva il ritratto del Rossi e quello di sua moglie Camilla Gonzaga, incinta, coi tre figli.
    Altri avvenimenti sfavorevoli ai Rossi inducevano Camilla Gonzaga a lasciare. nell'agosto del 1539 il castello di San Secondo (il marito si era già rifugiato a Mantova) e a trasferirsi a Casalmaggiore, dove risiedevano due famiglie guelfe legate ai Rossi, i Moreschi e i Chiozzi.
    Il Parmigianino tornava a Parma e qui subiva la ritorsione della parte ghibellina degli amministratori della Steccata, che lo faceva imprigionare e che il 19 dicembre 1539 gli intimava di non occuparsi più degli affreschi della Steccata. Uscito di prigione, Francesco fuggiva a Casalmaggiore, dove si trovava Camilla Gonzaga, e abitava a casa del «rossiano» Fabrizio Chiozzi, mentre un Moreschi risulta testimone del suo testamento.
    La fazione dei Rossi, bandita dalla città, si organizzava per cercare di tornare a Parma anche con la forza e per questo il Parmigianino sperava di poter riprendere il lavoro alla Steccata: di qui la dura lettera indirizzata a Giulio Romano il 4 aprile del 1540 nella quale lo invitava a non assumere l'incarico di un'opera che spettava a lui.
    Questa puntigliosa ricostruzione storica fatta da Bertini delle vicende degli amici e dei protettori del Parmigianino inquadra in modo chiaro e spiega razionalmente quanto è accaduto tra il 1538 e il '40 all'artista: la sua caduta in disgrazia e il suo rifugiarsi a Casalmaggiore in attesa di giorni migliori.
    Poco dopo la storia cambia. Parma diventa ducato (1545) e col radicarsi dei Farnese le risse tra le fazioni nobiliari cessano, ma per il Parmigianino è troppo tardi: la morte l'ha rapito nel Casalasco a soli 37 anni, infrangendo il suo sogno di completare il capolavoro della Steccata.

                                                                                                                        Pier Paolo Mendogni

 

 

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