Un ciclo di affreschi unico nella Rocca di San Secondo (Parma)

"Le Metamorfosi o l'Asino d'Oro" di Apuleio

di Pier Luigi Poldi Allaj

I diciassette quadri tratti dal romanzo di Apuleio, dipinti a fresco nella Sala dell'Asino d'Oro della Rocca dei Rossi a San Secondo, rappresentano un "unicum",  nel loro genere, nella storia del'arte rinascimentale. Viene infatti presentata la sola vicenda di Lucio-asino, mentre del tutto è tralascia la favola di Amore e Psiche, modello usuale - da Apuleio - nello specifico periodo (Raffaello alla Farnesina di Roma, Giulio Romano a Palazzo Te di Mantova, Perin del Vaga a Castel San'Angelo di Roma, Jacopo del Sellaio in un dipinto conservato al Fitzwilliam Museum di Cambridge).

A partire dagli ultimi decenni del 1400 si assiste, in campo letterario ed artistico, alla rivalorizzazione del romanzo "Le Metamorfosi o l'Asino d'Oro". Famosa una traduzione, ad opera di Marco Matteo Boiardo, accompagnata da 62 xilografie, edita in Venezia nel 1519, Il successo era, probabilmente, dovuto anche ad una certa rassomiglianza tra la "dottrina" apuleiana e l'epoca contingente, i tempi rinascimentali, dopo la scoperta del "nuovo mondo": desiderio di nuove conoscenze e nuove esperienze, una sorta di neo-platonismo, o di tutto quanto passava sotto questo termine, dal misticismo alla stessa magia.

Apuleio, nato a Madaura, nel nord-Africa, nel 125 d. C., portava in sè, insieme con una profonda sensibilità, tutto un universo di idee, di credenze, di immaginazioni, espresse anche a dispetto delle convenzioni dominanti. Aveva studiato a Cartagine, poi ad Atene. In una spasmodica ricerca della perfezione, al pari della sua eroina Psiche, si abbandonava a tutti i demoni della curiosità, avventurandosi sino alle frontiere del sacrilegio. Il romanzo "Metamorphoseon Libri XI" è la sua opera principale, opera certamente stravagante, probabilmente l'adattamento di uno scritto di Luciano di Patre, andato perduto, ma tramandato attraverso un plagio dal titolo "Lucio ovvero l'asino".

At ego tibi sermone isto milesio varias fabulas conseram...: con queste parole inizia la storia di un giovane di nome Lucio che rappresenta in chiave autobiografica l'autore e simoboleggia l'animo umano.

La reinterpretazione pittorica di San Secondo inizia a livello del III libro, trovandosi Lucio in casa di Milone, si sviluppa su due registri sovrapposti per concludersi con un quadro centrale preludio al ritorno alle sembianze umane. Lucio viene punito per la insaziabile cupidigia di approdare a sempre nuove conoscenze; troverà pace e serenità solo quando riuscirà a capire e a valorizzare i misteri di Iside e della sua religione.

Originario di Patrasso, recatosi in Tessaglia, paese delle streghe, si ritrova appunto in casa di Milone, la cui moglie Panfile è una maga che ha la facoltà, con l'ausilio di speciali pomate, di trasformarsi in uccello (I quadro). Aiutato dalla servetta Fotide, sua amante, Lucio tenta la sublime trasformazione, ma, sbagliato unguento, diventa asino, emblema del dio del male Tifone, antitesi di Iside (II quadro). Caricato delle masserizie rubate (III quadro), bastonato (IV quadro) viene portato, da feroci banditi, nel loro covo, dove incontra Carite, una fanciulla rapita (V quadro). Lucio tenta senza fortuna di fuggire, prima solo (VI quadro), poi insieme alla ragazza (VII quadro). Finalmente i due vengono liberati dal fidanzato di lei, Tlepomeno (VIII quadro). Affidato ad un garzone perché ne abbia cura, il povero asino-Lucio viene maltrattato (IX quadro) sino al punto di essere sodomizzato con un tizzone ardente dalla madre dell'asinaio infuriata per la morte del proprio figlio (X quadro). Lucio passa di padrone in padrone: lo troviamo al servizio di falsi sacerdoti della dea Siria (XI quadro), con i quali rischia maledettamente la vita prima di riuscire a fuggire (XII quadro). Servi lo sorprendono mentre, chiuso in dispensa, mangia avanzi di carne (XIII quadro) e ne informano il nuovo padrone che, fatta portare la bestia nel triclinio, ne sperimenta i gusti offrendogli una coppa di vino, certamente gradita a Lucio-asino (XIV quadro). Una matrona, desiderosa di provare nuove e più profonde emozioni, se ne procaccia i servigi restandone soddisfatta (XV quadro) e tanta ne è la fama che l'asino dovrebbe persino esibirsi in pubblico, nell'anfiteatro (XVI quadro). Ma Lucio, dopo tante peripezie e avventure, ormai non ne può più, anche perché riprende coscienza di sè, ribellandosi allo stato cui è costretto per un amaro sortilegio. Fugge sulla riva del mare. Vorrebbe farla finita ed esausto si addormenta. Gli appare in sogno la dea Iside che, annunciandogli la imminente ritrasformazione in uomo, lo desta e lo invita a seguire il corteo di popolo e sacerdoti che si stanno avviando al tempio per i sacrifici della incipiente primavera. Là giunto, finalmente troverà il tanto sospirato antidoto, le rose: le mangerà, ritornerà uomo (XVII quadro), diventerà sacerdote e missionario di Iside e dei suoi misteri.

Di seguito, quadro per quadro, sono presentati gli affreschi di San Secondo correlati alla descrizione tratta dalla traduzione italiana dei vari "passaggi" operata da Claudio Annaratone  (Biblioteca Universale Rizzoli, 1976 e seg.). L'edizione cartacea è corredata del testo in latino e di copia delle xilografie veneziane in tutto simili, quando non addirittura sovrapponibili, alle "scene" sansecondine. Occorre precisare che la xilografia dell'asinaio crudele mette in evidenza la caduta dell'asino in acqua a causa della riva sdrucciolevole e le conseguenti percosse per farlo rialzare (VII, 18), mentre l'affresco di San Secondo evidenzia il momento dell'asino che volontariamente si butta nella pozza d'acqua per spegnere le fiamme appiccate dal malvagio ragazzo al carico di stoppa (VII, 20).

 


ULTIME NOVITA' EDITORIALI INTORNO ALL'ASINO D'ORO DI APULEIO
Longo Editore in Ravenna              Oxford University Press


ALCUNE CONSIDERAZIONI IN MERITO A RECENTI SCRITTI
INTORNO ALL' "ASINO D'ORO" DI APULEIO

 


Ed ecco ciò che vidi.
Panfile si spoglia di tutte le sue vesti, poi apre un bauletto e ne estrae alcuni vasetti, leva il coperchio ad uno di essi, ne tira fuori una pomata, se ne sfrega a lungo le palme e si unge tutta, dalle unghie dei piedi alla cima dei capelli; quindi, dopo un lungo e segreto colloquio con la lucerna, è scossa per tutto il corpo da un tremito insistente.
Al tremito subentra poi un lieve palpitare, mentre sul corpo spunta una molle peluria, crecono delle robuste penne, il naso si incurva e si indurisce, le unghie s'ispessiscono e si fanno adunche.
E così Panfile diviene un gufo. Emette uno stridulo lamento, spicca piccoli salti sul pavimento per provar le sue capacità, poi s'innalza e vola via al di fuori con l'ali spiegate. 

(III, 21)


Già cercavo di librarmi in volo, or muovendo un braccio, ora l'altro, nel mio desiderio di trasformarmi in un uccello simile, ma in nessuna parte del corpo mi spuntava pluma o penna; al contrario i miei peli acquistano lo spessore delle setole, la pelle tenera diviene solido cuoio, all'estremità delle palòe si perde la divisione delle dita, ed esse tutte si contraggono insieme sino a formare uno zoccolo solo, e al termine della spina dorsale mi spunta un'enorme coda.
Ormai avevo un muso smisurato, una bocca lunga e larga, delle narici spalancate, delle labbra pendule; e così pure le orecchie eran cresciute in modo esagerato e s'eran ricoperte di ispidi peli.
Un solo conforto vedevo a questa mia sciagurata metamorfosi, ed è  questo: che, mentre non riuscivo più a tener Fotide fra le mie braccia, i miei attributi di maschio s'eran notevolmente sviluppati.

(III, 24)


V'era un magazzino in mezzo alla casa, solidamente sbarrato con robuste serrature, ch'era pieno dei tesori di Milone. Su di esso si accaniscono i briganti a gran colpi di scure, sino a sfondarlo; poi, dopo aver praticato diverse aperture, portan via tutta la roba che conteneva, fanno in fretta tanti fagotti, e se li dividono un po' per uno.
Ma la quantità dei bagagli superava il numero dei portatori, sicchè, data la eccessiva abbondanza della preda, i banditi non sapevan più che pesci pigliare. Alla fine, conducono fuori dalla stalla noi due asini e il mio cavallo, ci caricano di fardelli sino a schiacciarci e, sotto la minaccia delle bastonate, ci spingono via dalla casa ormai vuota. 

(III, 28)


Mi parve, allora, di esser proprio già con un piede nella fossa, perché da ogni parte mi vidi attorniato e aggredito da una muta di cagnacci orrendi e bravi ad azzuffarsi persino con ossi e leoni; vista la piega che prendevano le cose, decido di interrompere la mia corsa e me ne torno in tutta fretta alla stalla dove avevamo fatto sosta.
Quelli, richiamati a stento indietro i loro cani, mi afferrano e mi legano con una fune a nodo scorsoio, ricominciano a legnarmi, e mi avrebbero senz’altro fatto la pelle a bastonate; fortuna che il ventre mio, pieno di quegli erbaggi indigesti, non reggendo al male delle percosse, in preda a diarrea, si vuotò d’un tratto, come quando si toglie lo zaffo a una botte, e così i miei persecutori furono costretti a lasciar in pace la mia schiena malconcia, gli uni inzaccherati dalla nauseante sciolta, gli altri stomacati dal puzzo atroce che ne esalava.

(IV, 3)


Con queste e altre chiacchiere del genere, invano tentavano di calmare l’addolorata fanciulla. E come fare, se essa, il capo tra le ginocchia, piangeva come una vite tagliata! I ladroni, allora, chiaman dentro la vecchia e le ordinano di sedersi vicino alla ragazza e di consolarla con le parole più dolci che sapeva, poi se ne tornano alle consuete occupazioni. Neppure la vecchia, però, per quanto dicesse, riuscì a farle smettere il pianto. Anzi, la vista di quella giovane che gemeva ancor più forte e singhiozzava ininterrottamente, sino a rompersi il petto, strappò le lagrime anche a me.
- Non sono una disgraziata, io? - diceva. - Abitavo in una casa così bella, con una folla di servi e di domestici così affezionati, avevo dei genitori così virtuosi! Ora, spogliata di tutto, sono rimasta vittima di una indegna rapina, sono divenuta merce da vendere! Mi han rinchiusa in questa prigione di macigno, in questo antro di tortura e di morte! Non ho più quelle raffinatezze in cui nacqui e fui allevata! La mia vita è in pericolo, tanti e tali sono i briganti che compongono questa orrenda turba di assassini; e come posso io trattenere il pianto o solamente continuare a vivere?
Così si lamentava la giovane, e, affranta dal dolore, la gola soffocata dal pianto, era ormai allo stremo delle sue forze, quando reclinò gli occhi illanguiditi nel sonno.

(IV, 24)


Subito con un violento strattone rompo la corda con cui ero stato legato, e me la batto fuggendo di corsa a quattro zampe.
Non potei però sfuggire alla vecchia maligna e ai suoi occhi da nibbio. Poiché, quando mi vide sciolto, con una audacia superiore al suo sesso e alla sua età, mi afferrò per la cavezza, e cercò di farmi girare e di condurmi indietro. Ma io, che ricordavo bene le funeste intenzioni dei banditi, non mi lascio affatto turbare, e con le zampe di dietro le scarico addosso un paio di calci e la stendo senz’altro a terra.
Eppure, colei, benché giacesse sul terreno, si aggrappava tenacemente alla cavezza, sicché io, correndo innanzi, me la trascinai dietro un bel tratto. Per di più, cominciò subito a urlare a gran voce e ad implorare il soccorso di braccia più vigorose. Ma tutto fu inutile. Invano coi suoi pianti cercava di suscitar un assembramento, poiché non v’era nessuno che potesse recarle aiuto, eccetto quella sola fanciulla prigioniera. Costei, richiamata dalle urla, corre fuori e vede una scena da teatro, degna, perbacco, d’esser ricordata: vede una Dirce vecchierella appesa non a un toro ma a un asino, e, facendo prova di virile intrepidezza, imprende un bel gesto d’audacia. Strappa dalle mani della vecchia la cavezza, mi richiama alla calma sgridandomi dolcemente, sale in fretta a cavalcioni su di me e di nuovo mi sprona alla corsa.

(VI, 27)


Mentre la ragazza esprimeva l’una dopo l’altra queste sue intenzioni, e alle promesse intramezzava sospiri, giungemmo ad un incrocio. La giovane tirava la cavezza e cercava in ogni modo di farmi piegare a destra, poiché evidentemente per quella direzione si andava alla dimora dei suoi genitori. Ma io, che sapevo bene come i briganti si fossero diretti proprio da quella parte per andare a raccogliere il resto del bottino, recalcitravo ostinatamente, e nell’animo mio elevavo tacitamente queste lagnanze:
"A che pensi, infelice ragazza? Che fai? Perché vuoi precipitarti all’Orco? Dove vuoi andare, con i miei piedi? Non solo te, ma anche me finirai per rovinare!".
Mentre in tal modo tiravamo ciascuno in direzione opposta e litigavamo, come se si trattasse d’una questione di confini per la proprietà d’un terreno o anche per la divisione d’una strada, ecco che ci sorprendono i banditi in persona, carichi delle loro prede. Essi ci riconoscono sin da lontano al chiaror della luna, e ci salutano con una risata di scherno.

(VI, 29)


Appena arrivammo, tutta quanta la cittadinanza si riversò fuori per godersi uno spettacolo che esaudiva i suoi voti. Innanzi a tutti corrono i prossimi congiunti, i parenti, i clienti, i domestici, i servi, con la letizia dipinta sul volto ed esultanti di gioia.
Era davvero uno spettacolo memorabile, vedere una folla di persone d’ogni età e d’ambo i sessi accompagnare in corteo una giovane portata in trionfo su di un asino. Alla fine, anch’io per parte mia ero divenuto più allegro: per assumere un’aria adatta e non sembrare estraneo al momento, tesi le orecchie, gonfiai le narici e diedi in un raglio così sonoro, che esso rimbombò col clamore del tuono.

(VII, 13)


Tuttavia, nelle tenebre della sventura, la Fortuna volle rifulgere con una luce più lieta. Forse mi riservava ai futuri pericoli, ma il fatto è che mi salvò dalla morte immediata cui ero destinato.
Difatti, volle il caso che la pioggia il giorno prima avesse formato là vicino una pozza d'acqua fangosa. Vederla e gettarmici completamente dentro, senza neppur riflettere, fu tutt'uno; così l'incendio si spense del tutto, e io me ne uscii alla fine alleggerito del carico e liberato dalla morte. Ma quel pessimo soggetto, quello svergognato d'un ragazzo, anche questa sua infamia ritorse contro di me: raccontò a tutti i pastori che, mentre passavo vicino a dei fuochi accesi dai vicini, a bella posta avevo incespicato, che m'ero lasciato cadere a terra e che m'ero tirato volontariamente addosso le fiamme, e aggiunse ridendo:
- Sin quando daremo da mangiar senza costrutto a un incendiario come costui?

(VII, 20)


Detto fatto, introduce le mani sotto la veste, si scioglie la fascia dal seno, mi lega con essa i piedi l’un dopo l’altro e me li serra insieme con uno strettissimo nodo, naturalmente per non lasciarmi possibilità alcuna di reagire; afferra una pertica con cui si soleva puntellare la porta della stalla e comincia a battermi; né la smise sinché per la stanchezza le mancarono le forze, e il bastone, opprimendola con il suo stesso peso, le sfuggì di mano. Allora, imprecando alle sue braccia che si stancavano così facilmente, corre al focolare, porta un tizzone ardente e me lo ficca tra le cosce. Alla fine io, difendendomi col solo mezzo che mi restava, le scaricai addosso uno zampillo d’un liquido maleodorante sì da imbrattarle il volto e gli occhi. Così, oltre che non ci vedeva più, anche il fetore le impedì di uccidermi. Altrimenti un asino, novello Meleagro, sarebbe perfetto sotto il tizzone d’un’ Altea impazzita.

(VII,28)


Il giorno dopo, tutti indossano delle sopravvesti multicolori, si adornano in sconcia maniera, spalmandosi la faccia con argilla colorata e dipingendosi in giro gli occhi con la matita nera, poi escono. Sul capo portano piccole mitre, addosso vesti di color zafferano, veli di lino finissimo, fazzolettoni di seta; alcuni indossano tuniche bianche, listate in ogni senso di strisce di porpora a forma di piccole lance, con cinture serrate alla vita, e hanno ai piedi scarpe gialle. In quanto alla dea, dopo averla rivestita con un mantello di seta, me la pongono sul dorso da portare. Essi, con le braccia nude sino alla spalla, brandiscono spade e scudi enormi, e spiccan salti alla maniera delle baccanti, mentre il suono del flauto porge nuovo incitamento alle loro frenetiche danze. Visitano così parecchie abitazioni di povera gente, e arrivano alla fattoria di un ricco proprietario; qui, sin sull’entrata, urlando in modo sconveniente, fanno un baccano del diavolo e irrompono dentro come invasati.

(VIII, 27)


Così quello scellerato carnefice si disponeva ad armar l’empie mani contro di me. Ma il pericolo, che era imminente e gravissimo, mi indusse a bruciar le tappe; senza perder tempo in riflessioni, decido di fuggire per scampare al macello che mi pendeva sul capo. Tosto con un violento strattone rompo la fune con cui ero legato, e di gran corsa me la do a gambe, non trascurando di sparar calci in abbondanza, a tutela della mia pelle; attraverso di furia il portico antistante, irrompo, senza esitare, nella sala del triclinio, dove il padrone di casa, insieme coi sacerdoti della dea, attendeva a un pranzo sacrificale, e col mio slancio mando in frantumi non poca roba, tra posate e vasellame, e faccio cadere tavole e lumi.
Il signore, crucciato al vedere il triste scempio delle sue cose, mi affida con molte raccomandazioni a un servo e gli ordina, vista la mia insolenza ed irrequietezza, di tenermi chiuso in luogo sicuro, onde evitare ch’io tornassi con egual sfacciataggine a scompigliare la serenità del convito. Con questa trovata carina seppi egregiamente difendermi e, scampato dalle mani del beccaio, ero tutto contento d’essere custodito in quel carcere che per me rappresentava la salvezza.

(IX, 1)


Nel frattempo, grazie all’alimentazione generosa e all’abbondanza delle vivande, fatte per gli uomini, con cui mi riempivo la pancia, il mio corpo era divenuto rotondo, pingue ed obeso; su quel lardo m’era spuntata una cotenna morbida e grassa, e il pelame aveva preso uno sviluppo e un lustro pien di decoro.
Purtroppo, la bellezza che faceva onore al mio corpo fu causa di grave disonore pel mio amor proprio. Infatti, i fratelli furon sorpresi dalla rotondità della mia groppa e, vedendo che il fieno ogni giorno rimaneva completamente intatto, appuntarono su di me la loro attenzione. All’ora consueta chiudono come al solito la porta con l’intento, in apparenza, di recarsi ai bagni; invece si mettono a spiare attraverso una piccola fessura, e scoprono ch’io m’ero già attaccato alle pietanze esposte qua e là. Tutta la preoccupazione pel danno gli era già passata. Osservando con stupore un asino compiacersi di quei cibi raffinati in modo che aveva del prodigioso, scoppiano in grandi risate e invitano un compagno, un secondo e poi parecchi altri a contemplare, spettacolo che sfidava ogni descrizione o ricordo, la golosità di un’ottusa bestia da soma.

(X, 15)


Durante questo spasso, nella sala del banchetto scoppiava una risata dopo l’altra, e uno dei presenti, un buffone, gridò:
- Offrite un po’ di vino sincero all’amico.
Il padrone si prestò alla celia, e replicò:
- Birbante che non sei altro! Lo scherzo non è poi tanto assurdo. Potrebbe benissimo darsi che al nostro amicone piacesse di bere un bicchiere di vino col miele. - E rivoltosi a uno schiavo:
- Ehi tu! Ecco un boccale d’oro. Lavalo come si deve, empilo di vino al miele, e offrilo al mio invitato. Avvertilo anche che io ho bevuto alla sua salute.
Tra i commensali si destò subito una viva curiosità. Ma io, senza turbarmi affatto, con molta calma e piacevolezza, arrotondai le estremità delle labbra a mo’ d’una lingua, e in una sola sorsata vuotai quella coppa gigantesca. Subito si levò un coro di voci, e tutti mi augurarono buona salute.

(X, 16)


Allora la signora si spoglia d’ogni sua veste, compresa la fascia che le stringeva il bel seno, e, stando in piedi vicino alla luce, da un vasetto di stagno trae un unguento profumato e se ne unge abbondantemente le membra; poi col medesimo unguento, senza risparmio, mi sfrega il corpo e in particolare me ne asperge con cura le narici. Dopodiché, mi copre dolcemente di baci; ma non quei baci che si soglion scambiare nei postriboli, quando le prostitute bussano a soldi e i clienti fanno il nesci; puri e sinceri erano i baci che mi dava, e tenerissime le parole, come: "Ti voglio bene", "Ti desidero", "Amo te solo" e "Senza te non posso più vivere", e altre frasi del genere che le donne dicono sia per adescare gli uomini, sia per dare maggior calore alle proprie effusioni. Mi prende poi per la cavezza e mi fa sdraiare in terra, così come m’era stato insegnato; io l’assecondai facilmente, poiché ciò che stavo per fare non mi pareva né nuovo né difficile, tanto più che dopo tanto tempo pregustavo di ricevere gli amplessi di una donna bella e per di più appassionata. D’altronde, e l’ebbrezza di quel vino squisito che avevo bevuto in abbondanza, e l’acuto profumo di quell’unguento, avevano destato in me un desiderio di voluttà.

(X, 21)


Ecco ch’era arrivato il giorno destinato allo spettacolo, e con un codazzo di popolo plaudente vengo condotto in pompa magna sino alla cinta delle gradinate. Mentre si svolgeva un avanspettacolo, consistente in balletti danzati da attori di professione, io me ne stavo momentaneamente davanti a una porta d’ingresso, e con molto piacere ero occupato a brucare l’erbetta che cresceva abbondante proprio sul limitare: di tanto in tanto gettavo un’occhiata curiosa attraverso la porta aperta e mi ricreavo allo spettacolo davvero divertente.
Infatti, ragazzi e ragazze nel fiore della loro fresca adolescenza, segnalati per la loro bellezza, splendidamente vestiti, espressivi nella loro mimica, si presentarono sulla scena per ballare la danza pirrica dei Greci. Essi, disposti in ordine, intrecciando leggiadre evoluzioni, ora si volgevano in un circolo che ruotava su se stesso, ora sfilavano di traverso l’uno dietro l’altro come in una catena, ora prendevano la forma di tanti cunei sì da formare un quadrato, ora aprivano la schiera in due file.

(X, 29)


Ed ecco avvicinarsi il momento fatale del beneficio promessomi dalla dea misericordiosa. Il sacerdote che recava con sé la mia salvezza si avanza, e tien nella destra, proprio in quella foggia che aveva prescritto la divina promessa, un sistro per la dea e una corona per me. Perbacco! La corona faceva proprio al caso mio, poiché, dopo tante e tali fatiche affrontate, dopo tanti rischi superati, riuscivo finalmente, grazie al provvidenziale ausilio della massima divinità, a vincere la Fortuna che mi perseguitava così crudelmente.
Eppure, non mi lasciai commuovere dall’improvvisa gioia, né mi precipitai di corsa, tutto d’un balzo. Temevo, infatti, e con ragione, che se mi fossi lanciato bruscamente, con l’impeto conveniente a una bestia a quattro zampe, avrei turbato la tranquillità e l’ordine della cerimonia; perciò, con quel passo calmo che è proprio abituale a un essere umano, mi avvicinai di traverso pian piano e con molta circospezione, e mi insinuai nella sfilata, mentre la folla mi faceva largo, certo per divina ispirazione.

(XI, 12)

Se vuoi saperne di più su Apuleio e sul suo "Asino d'Oro":

APULEIO, L., Le metamorfosi o L'asino d'oro, BUR, Milano, 1995.

APULEIO, L., Le novelle dell'adulterio (Metamorfosi IX) (a cura di S. Mattiacci), Le Lettere, Firenze, 1996.

BIANCO, G., La fonte greca delle Metamorfosi di Apuleio, Paideia, Brescia, 1971.