LETTERE - Libro III - 524

 

E' l'unica lettera di Pietro Aretino a Monsignor Giovan Girolamo de' Rossi, fratello del Conte di San Secondo. Viene scritta nei tragici momenti dell'esilio del Vescovo di Pavia, dopo la condanna inflittagli da un Tribunale Romano, unico mezzo per togliere di mezzo chi più di ogni altro esponente del Casato osteggiava la politica espansionistica dei Farnese, dopo che il Papa Paolo III aveva creato il Ducato di Parma e Piacenza ad uso e consumo della propria famiglia.

 

 

A monsignor de' Rossi

Da che tiensi per atto bruttissimo il fatto di colui che ne le proprie ruine (ancora che si vegga exempio d'ogni miseria) non diventa sotto il precetto di se stesso di buono ottimo, tengo per caso miracoloso il patir vostro; da che punto non uscendo del consiglio di voi medesimo, d'ottimo sete diventato perfetto. Onde il mondo stupisce ne la considerazione del come sia possibile che toleriate ne la avversità de la sorte quello che non si può sopportar ne le prosperità de la fortuna. Tal che in quanto a la gloria che ve ne consegue, eravate già più piccolo in le contentezze, che ora non apparite grande ne i fastidi; e tutto viene da lo essersi perduta ne la vostra mente regia l'altiera ricordanza de l'alta condizion di prima. Imperoché una de le eccessive felicità che si provano, è il dimenticare d'esser stato felice. La qual novità di prudenzia vedesi di maniera in voi risplendere, che ogniun confessa che vi è rimasto due volte tanto più d'animo di quel che vi ha tolto facultade non l'error che non commetteste, ma la ricchezza che possedevate. Cosa sì repugnante ala innocenza e ala gioventù, che l'una e l'altra apena presta in ciò fede a se stessa; che pare che non possa essere che voi giovane e innocente in sì crudel sinistro vi asteniate dal furore e da la disperazione. E pur è vero che in vece de le prelature e de le rendite, sete in modo arricchito di dottrine e di sapienzie sì fatte, che non è regno, né tesor, che l'aguagli. Conciosia che non pure il fato e gli influssi non han potestà sopra di loro; ma né il tempo, né la morte volgeran non che altro che il guardo ai poemi, e agli annali, perpetue opere de la vostra eterna penna. A le cui somme e gloriose fatiche son prescritti e guiderdoni e premidi tali dignitadi e pecunie, che meno non ne meritano, né più non ne desiderano quella fortezza e quella pazienzia che in virtù propria vi hanno insegnato a vincere la iniquità e la perfidia del destino empio, e de le maligne stelle. Sicché exultate in Dio in l'augurio di sì verace pronostico. Di Novembre in Vinezia MDXLV.

 

Pietro Aretino

 

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